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Paolo Zelati

Interviews

LA SEXY ARTE DI EMANUELE TAGLIETTI

In questa lunga intervista carriera, Emanuele Taglietti mi racconta l'epopea del fumetto erotico

Vorrei partire con una domanda da nerd. Spesso e volentieri mi sono chiesto quanto sarebbe stato bello vedere le tue copertine, ovvero i tuoi dipinti, delle dimensione di un manifesto 4fogli! Non hai mai pensato, all'epoca, di fare il cartellonista?

Certo! E ci sono andato anche vicino...però quando pensai di intraprendere quella strada ormai il filone si stava esaurendo, nel senso che l'interesse dei distributori per il manifesto dipinto cominciava già a venire meno. Era il 1972 e mi ricordo che andai da Rodolfo Gasparri per chiedergli se potevo collaborare con lui e mi disse che mi avrebbe preso volentieri ma che il periodo d'oro era finito.

Effettivamente anche Giuliano Nistri individua a metà anni Settanta l'inizio della fine. Mi disse che fu il momento in cui il telefono cominciò a suonare meno. E da un certo punto di vista è molto strano visto che negli anni Ottanta, periodo della mia infanzia, dominavano i bellissimi manifesti della coppia Sciotti e Casaro...

Questo è vero, ma il mutamento è avvenuto nell'industria. I pittori erano abituati a disegnare due o tre manifesti diversi per ogni film....di non so quanti al mese! In Italia si producevano tipo 350 film all'anno! Negli anni Ottanta c'era già la desolazione...questi numeri se li sognavano. Sciotti e Casaro sono stati dei grandissimi ma si trovavano ad affrontare un periodo di depauperamento artistico delle persone che lavoravano nel settore e che, ai tempi d'oro, erano più di 100.

Parlando di pittori di cinema, mi puoi dire chi era il tuo preferito?

Angelo Cesselon, sono un suo grande ammiratore. Mi ricordo che per il film “La bibbia” gli vennero commissionati 6 o 7 manifesti tutti diversi, tra questi c'era un manifesto orizzontale, richiesto da De Laurentis, in cui si vedevo lo stabilimento sullo sfondo. C'era questo prato con i fiori e sullo sfondo un bellissimo cielo....una cosa molto semplice ma io la trovai magnifica e da allora ho cominciato a seguirlo. Il mio apprezzamento nei suoi confronti è soprattutto tecnico: non ho mai trovato nessuno con quel tipo di tavolozza. Poi nel campo dell'illustrazione in generale il più grande per me è stato Fortunino Matania, il quale ha lavorato tutta la vita in Inghilterra ed è tornato in Italia solo per morirci, verso la fine. Poi ovviamente Walter Molino, un artista straordinario che aveva tutta una sua documentazione fotografica alla quale, però, accedeva solo per avere delle idee sui costumi e mai sull'anatomia; le sue erano figure straordinarie create senza nemmeno l'aiuto dei modelli...

….io adoro e colleziono le sue copertine per “La Domenica del Corriere”...

...certo, tutte illustrazioni in bianco e nero realizzate con china diluita; il colore veniva poi applicato in fase tipografica. Io questo non lo sapevo. Quando sono andato a vedere la mostra su Molino non mi aspettavo di vedere tutte le illustrazioni solo in bianco e nero realizzate con tutta la scala dei grigi ecc. Ho subito chiesto informazioni sul procedimento e la tecnica e me lo hanno anche spiegato ma francamente ora non saprei ripetertelo...

Quindi possiamo considerare queste persone come i tuoi maestri, i tuoi punti di riferimento artistico...

Sicuramente. Però mi sento di citare altri due nomi in questa classifica: Ercole Brini per le idee che aveva, incredibilmente innovative e Sandro Simeoni, il quale arriva un poco più tardi ma era un grande pittore con una testa pazzesca e anche un carattere molto difficile...(ride). Quando lavoravo al “Il viaggio di Capitan Fracassa”, Ettore Scola aveva inizialmente pensato a Simeoni per realizzare il manifesto, poi però decise di commissionarlo a me. Di solito non è il regista ad occuparsi dei manifesti ma la distribuzione. In quel caso però c'era un rapporto diretto di amicizia fra Scola e Simeoni e così Ettore usava chiamarlo direttamente per descrivergli quale era la sua idea per il corredo pubblicitario. Credo che Sandro fosse però già molto impegnato e così il lavoro passò a me perché Scola mi conosceva già da tempo e si fidava. Io ormai lavoravo da parecchio come aiuto scenografo e dipingevo le scenografie in scala che poi venivano riprodotte con la proiezione o fotograficamente, con l'aiuto di fondali e gigantografie.

Perfetto. Mi racconti di Federico Fellini?

Io sono andato per la prima volta su un set di Fellini nel 1962. Vivevo già a Roma perché stavo studiando al Centro Sperimentale e un giorno ho deciso di andare all'EUR a trovare mio padre che stava lavorando su “8 ½ “ in qualità di pittore e scenografo. In quell'occasione ho conosciuto un ragazzo poco più vecchio di me che era l'assistente scenografo di Piero Gherardi, un personaggio che all'epoca aveva già vinto un Premio Oscar. Oggi nessuno ne parla più ma Gherardi è stato il primo grande Art Director del cinema italiano; era architetto, arredatore e costumista del cinema, si occupava insomma di tutta la parte visiva. Ad ogni modo io conobbi il suo assistente, Luciano Riccieri, e facemmo amicizia. Più avanti, dopo essermi diplomato, mi ricordai di lui e lo chiamai; lui nel frattempo era diventato primo scenografo e lavorava da solo, quindi divenni il suo assistente e lo feci per parecchi anni. Io mi occupavo principalmente della progettazione degli storyboard, un'innovazione che noi italiani imparammo quando gli americani vennero a Roma per girare “Cleopatra” negli stabilimenti di proprietà del Centro Sperimentale. Mi ricordo che eravamo tutti molto eccitati dal vedere gli americani al lavoro...io conobbi molto presto l'Art Director John DeCuir, il quale mi spiegò che gli storyboard erano essenziali soprattutto in una produzione così grossa. Mostrandomi alcuni disegni mi spiegò come una preparazione di quel tipo facesse risparmiare a regista e produzione un sacco di soldi. Aveva in mano un disegno fatto a mano nel quale erano minuziosamente illustrati sia i movimenti di macchina sia l'esatta porzione di set che l'obiettivo avrebbe ripreso. In quel modo gli scenografi avrebbero dovuto costruire solo la parte in campo di, per esempio, una torre. In quel modo si ottimizzava il tempo e anche i denari spesi. Mi resi conto in quel momento che noi, usando lo stesso metodo, avremmo potuto risparmiare un sacco di soldi!

Quindi prima del 1962 in Italia non si usava proprio questo metodo?

Guarda, io personalmente cominciai a fare gli Storyboard dopo quella esperienza e così anche molti degli scenografi miei coetanei di cui mi posso ricordare ora

Parliamo del tuo lavoro in “L'Odissea” di Franco Rossi al fianco di Mario Bava per l'episodio di Polifemo?

Si trattava di una serie per la TV di 8 puntate e mi ricordo che già nelle riunioni preparatorie si parlava già di quel preciso episodio e si sapeva già che sarebbe stato affidato a Mario Bava in virtù della sua maestria con gli effetti speciali. Mario fece la completa regia di quell'episodio, mi ricordo infatti di non avere mai visto Rossi sul set. Poi c'era il laboratorio di Carlo Rambaldi che sulle indicazioni di Bava forniva gli effetti meccanici che venivano realizzati nei modi più originali, utilizzando persino i freni e le catene delle biciclette. Per esempio mi ricordo la scena in cui si doveva far muovere la mano di Polifemo: ognuno era assegnato ad un dito e quando Rambaldi dava l'ordine tutti si muovevano in sincrono e tu vedevi la manona del gigante che si stringeva: molto divertente!

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Nonostante tu fossi ormai inserito nel giro delle produzioni ad un certo punto, verso la fine degli anni 60, hai cominciato a maturare una decisione che poi ti avrebbe portato via da Roma....cosa è successo?

Sai cosa è successo? Nonostante l'industria del cinema italiano fosse florida e producesse 350-400 film all'anno, ad un certo punto, diciamolo pure, hanno cominciato a prendere piede film dallo scarso valore artistico...per esempio non tutte le commedie all'italiana erano dei capolavori e di conseguenza molti produttori cominciarono a risicare i budget all'osso. Quasi nessuno voleva più investire nelle scenografie; si cercavano location già pronte e si puntava a girare dal vero. Inoltre, sempre per risparmiare, anche quando si decideva di costruire si doveva andare all'estero. Io cominciai a lavorare in Spagna, Jugoslavia e Tunisia, lavori pagati bene anche se ci davano la diaria in moneta locale e quindi dovevi cercare di spenderla tutta la altrimenti non valeva più nulla! (ride)

Questo è periodo in cui sei andato anche in Almeria a lavorare a “Il mio nome è nessuno”...

Esatto, eravamo in provincia di Granada e c'era un caldo infernale. Sergio Leone e Tonino Valeri erano grandi amici e quindi, visto che Sergio era sotto contratto con gli americani e non poteva realizzarlo, lo fece girare a Tonino; questo me lo disse lui all'epoca. Io venni mandato in Spagna per realizzare un villaggio e lavoravo con tutte maestranze spagnole. Nello stesso tempo, l'altro assistente, che si chiamava Dino Leonetti, era partito per gli Stati Uniti con Valeri per girare diversi esterni e scene nel deserto. Lo scenografo del film era Gianni Polidori che venne in Spagna con me, mi spiegò cosa dovevo fare, e poi raggiunse gli altri in America. Io rimasi da solo a gestire le maestranze e a costruire il tipo di villaggio che voleva Leone. Dopo circa un mese Sergio venne da solo a trovarmi per vedere gli sviluppi del lavoro. Io non lo conoscevo ancora ed ero un po' nervoso poi però scoprì immediatamente che questo omone alto e grosso con la folta barba era un uomo simpatico e, soprattutto, dolcissimo. Appena arrivato mi venne subito a cercare e gli feci fare un giro del villaggio che era quasi finito. Sergio ne fu molto contento e apprezzò molto la tecnica con la quale avevo realizzato l'hotel. Finita, diciamo così, l'ispezione presi la macchina e lo accompagnai al suo hotel a Granada; stavo per ripartire quando Sergio mi prese per un braccio e disse: “Adesso tu ti fermi qui con me!”. Io non me lo aspettavo ma rimanemmo insieme in albergo per sei giorni...

...e come mai tutto ciò?

...Io credo che non se la sentisse di stare da solo, soffriva un po' di solitudine. Sergio è sempre stato abituato a vivere in famiglia, circondato da moglie, figli e nipoti, oppure in un grande set in cui la troupe diventa un po' come la tua famiglia....e quindi nelle situazioni in cui doveva stare solo non si sentiva a suo agio. Fu una settimana bellissima in cui Sergio si lasciò andare a grandi confidenze...e pure io con lui. Ne ho uno splendido ricordo. Anche perché poi l'anno successivo io lasciai il mondo del cinema e quindi non lo rividi mai più.

Parliamo proprio del tuo inizio nel mondo dei fumetti saltando quello che so già. Ovvero so che sei partito per Milano con tre appuntamenti fissati ma che poi bastò il primo...alla Edifumetto....

Vero. Sono partito per Milano con gli appuntamenti fissati, un foglietto con gli indirizzi e i numeri di telefono e tre bozzetti campione 35x50...

Che soggetti erano?

Allora, uno era una proposta di copertina per la testata Playcolt, poi nel secondo avevo disegnato un volto che ricordava Franco Gasparri dietro a delle sbarre ed il protagonista del terzo era l'attore francese Michel Simon che aveva uno splendido volto e che avevo copiato da una foto che avevo. Devi ricordarti che all'epoca non c'era internet e quindi ci si doveva procurare una documentazione cartacea da cui prendere spunto e ispirazione...cosa che io ho fatto anche in poco tempo girando tra le vecchie librerie e i banchi di Porta Portese. Non si trattava solo di figure umane, ma serviva un archivio fotografico di un po' di tutto: piante, animali, oggetti, arredamento...Si trattava di una risorsa importante per il nostro lavoro e io l'ho imparato la prima volta che sono andato a trovare Rodolfo Gasparri, il quale aveva lo studio pieno di giornali, riviste e libri di tutti i tipi. Comunque, appena arrivai a Milano telefonai alla Edifumetto e la segretaria di Barbieri mi fissò subito l'appuntamento; entrai e lei mi accompagnò nello studio dell'Art Director che all'ora era Giuseppe Pederiali. Era una persona di poche parole e non ti nascondo che mi mise anche un po' in soggezione...in realtà io speravo in un'accoglienza diversa...credevo di aver fatto dei capolavori! (ride)...invece lui – che era abituato ai Ciriello ecc. - ovviamente non si scompose più di tanto! (ride)...guardò le mie tavole, si alzò e andò a chiamare Barbieri, il quale arrivò, tutto abbronzato ed elegantissimo, scrutò le mie tavole (dagli occhi capivo che le apprezzava) e poi mi chiese: “Senti, ma tu quante copertine riusciresti a fare in un mese?”. Io stavo quasi per rispondere “6 o 7” quando lui mi anticipò e disse: “Saresti in grado di farne 10 o 12”? Allora io subito senza pensarci dissi: “Certo, che problema c'è?” (ride)...e fu una cosa incosciente da dire perché immediatamente mi venne in mente che avrei dovuto lasciare subito il film di Scola sul quale stavo lavorando. Sigillammo l'accordo con una stretta di mano, cosa che all'epoca era più che sufficiente, e inoltre io sapevo che lo avrebbero rispettato perché erano con l'acqua alla gola: dovevano gestire 30 uscite mensili ed erano a corto di personale. Il povero Biffignandi non poteva certo farle tutte lui le copertine!

A quel punto sei tornato subito a Roma?

Certo e poi corsi a licenziarmi dal mio lavoro e Riccieri, ti devo dire, ci rimase molto male...però io non avrei potuto anticipare alla produzione questa cosa...altrimenti non mi avrebbero mai fatto cominciare un lavoro se non erano certi della mia presenza. E io, a mia volta, non potevo rischiare di rimanere senza stipendio visto che ero giovane ma già sposato e con dei figli.

Quali sono stati i tuoi primi lavori alla Edifumetto?

Disegnare Alain Delon per le copertine di Playcolt. Ed erano copertine senza un tema, anche perché Pederiali diceva che senza tema venivano meglio...e infatti se ci pensi le copertine sono quasi sempre slegate dalla trama del fumetto. E io ero anche avvantaggiato perché ero molto più libero; più avanti, quando divenni più esperto, mi assegnarono collane tipo “Attualità nera” che invece, essendo legate alla cronaca, necessitavano di una copertina specifica legata al racconto. Considera che io venivo da una preparazione scenografica e quindi ero bravo a fare gli sfondi perché c'erano delle macchine, delle architetture ecc. e invece ho dovuto lavorare molto per migliorarmi sui ritratti e sull'anatomia.

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Ecco raccontami come hai lavorato soprattutto sull'anatomia femminile che poi è diventata un tuo marchio di fabbrica

Ho lavorato studiando molte riviste e anche dal vero con delle modelle...però io in questo tipo di lavoro ero avvantaggiato perché venendo dal cinema sapevo come illuminare. E, quindi, conoscendo le luci ho cominciato a fotografare e poi a disegnare il corpo delle modelle sfruttando tutti i trucchi che conoscevo per mettere in risalto le forme.

Com'era il clima alla Edifumetto?

Era un clima disteso e famigliare ma anche molto caotico con Barbieri al comando. Tu devi considerare che si producevano 30 testate al mese di 100 tavole ognuna più le copertine: immagina, quindi, la quantità di disegnatori che dovevano lavorare. E circa lo stesso tipo di produzione mensile accadeva anche alla Ediperiodici di Giorgio Cavedon. C'era un sacco di lavoro e questi disegnatori nel frattempo, con la pratica, imparavano e si miglioravano ma, allo stesso tempo, guadagnavano decentemente e potevano mantenere una famiglia. Oggi questo sistema è scomparso; i giovani che si propongono per lavorare devono essere già bravissimi...non esiste più il margine di miglioramento.

Ovviamente nei contratti che stipulavi non era citato il possesso dell'immagine che cedevi?

No, però si parlava della resa degli originali. In teoria io avrei potuto farmi restituire la tavola originale dopo la stampa, ma però non ci pensavo...a nessuno interessava. La verità è che ci sentivamo un poco in colpa nel disegnare fumetti erotici....nessuno di noi, infatti, le firmava mai. Quando poi, più tardi, ho cominciato anche a fare l'insegnante non raccontavo pubblicamente di questo lavoro, ma mi aprivo solo con quei ragazzi interessati alla pittura che capivano come non ci fosse nulla di cui vergognarsi nel dipingere un seno o una donna nuda...

...che poi, se vogliamo dirla tutta, non era nulla di veramente pornografico...

Esatto, io non ho mai disegnato nulla di pornografico. Altri lo hanno fatto e sono anche diventati molto bravi in quel campo; io stesso ho visto ed apprezzato delle tavole meravigliose! Vedi, io non guardo la cosa da un punto di vista morale, ma prettamente tecnico...secondo me nel momento che si guarda un disegno fatto a mano, un'opera dell'ingegno che prova, più o meno bene, a rappresentare la realtà, non è mai da condannare. E ti dirò che almeno 5 o 6 dei miei studenti che erano interessati al disegno erotico, poi sono andati avanti e lo hanno fatto come lavoro, anche a grande livelli. E di questo io sono molto soddisfatto.

Parliamo del Lettering che anche nei fumetti, come nei manifesti cinematografici, era molto intrigante e parte integrante del disegno. Nel tuo caso lo realizzavi tu quelli dei titoli?

No, io facevo solo le tavole e poi c'era qualcuno, credo, che si occupava solo di quello. E comunque se lo avessi chiesto me lo avrebbero lasciato fare di sicuro con tutto il bisogno di mano d'opera che c'era. Considera che solo a Milano due editori producevano 60 testate al mese! Poi dopo c'era Furio Viano, i Fratelli Dami e lo Studio Favalli a Roma....

Qual'è stato il periodo di massimo fulgore di questo fenomeno editoriale del fumetto erotico?

Guarda, il periodo d'oro va circa dal 1970 fino al 1982, poi è cominciato il decadimento...anche a causa del boom delle videocassette e l'avvento dei fotoromanzi porno tipo “SuperSex” con Gabriel Pontello. Pensa che pure noi le compravamo perché erano fotografate molto bene, i nudi ovviamente non mancavano, e quindi ci servivano come fonte di ispirazione e potevano sostituire le modelle. E poi sai cosa è successo, almeno una decina di volte, a causa di questo? (ride)...che qualcuno accusava un altro di avergli copiato il disegno! E invece la verità è che ci eravamo ispirati tutti alla stessa immagine...

Parliamo ora dell'uso dei volti degli attori famosi che in quel periodo era piuttosto evidente; penso alla tua Sukia che era chiaramente ispirata ad Ornella Muti...

Si ma devi pensare che non si trattava di immagini fotografiche...nel disegno basta cambiare qualche dettaglio per parlare solo di “somiglianza”...e infatti alla Edifumetto mi ricordo un solo caso di una causa intentata da un attore e la cosa si concluse velocemente perché Barbieri fece ritirare il fumetto. Inoltre io penso che molti attori non disdegnassero la pubblicità in più che i nostri disegni gli donavano con un pubblico che, magari, andava poco al cinema.

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Come mai scelsi la Muti per il personaggio di Sukia?

Non lo so perché onestamente non sono stato io...era sempre Barbieri a prendere queste decisioni e allora mi ricordo che mi disse: “Dobbiamo scegliere una bella donna per il ruolo principale: cosa ne dici di questa?” e mi mostrò una foto della Muti a 20 anni che era di una bellezza incredibile. Io credo proprio che lei non abbia mai detto niente perché è una donna intelligente e capì che anche lei ci guadagnava in esposizione mediatica. Inoltre io non ho mai fatto una copertina che fosse volgare e ricordati che la copertina è la prima cosa che vedevi nel fumetto!

A proposito della Muti, raccontami di quando Madonna ha postato sui social una tua copertina di Sukia....

Sono passati ormai alcuni anni da quando Madonna sul suo Istagram postò un particolare di una mia copertina di Sukia in cui una croce viene esposta frontalmente davanti al visto della protagonista in cui lei scrisse, probabilmente rivolta alla Muti: “Insegnami a pregare”. Ovviamente i commenti dei followers sono stati tanti ed anche una piccola conversazione fra Madonna e la Muti stessa. La cosa divertente è che nessuno sembrava capire si trattasse di una mia copertina anzi, credevano fosse un fotogramma del film “Le Monache di Sant'Arcangelo”. Soltanto un mese dopo qualcuno intervenne nella conversazione svelando il mistero: “Ma questa è una copertina di Taglietti!”. E comunque ne scrissero tutti i giornali di questa cosa...

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Tu poi la Muti la incontrasti per la prima volta sul set di “Capitan Fracassa”...

Si, la incontravo tutti i lunedì mentre lavoravo con Scola, però non parlammo mai. Anche perché, in generale, sono sempre stato molto riservato a proposito del mio lavoro e, come ricordavamo prima, anche un po' preoccupato. Mi ricordo quando andai nell'ufficio di Barbieri e gli dissi: “Ma chi si prende la responsabilità di queste copertine? E se per caso mi vengono a dire qualcosa?”. Lui mi guardò, poi mi mise in mano un fumetto che stava sulla scrivania e disse: “Vedi cosa c'è scritto nella prima pagina? Direttore Responsabile: Renzo Barbieri. Quindi sono io che mi assumo la responsabilità di tutto, non ti devi preoccupare!”. Oggi, però, ne parlerei con la Muti....anche perché a 80 anni nessuno mi può fare più niente! (ride).

Ecco, prendo spunto da questa tua ultima affermazione per chiederti quand'è che, finalmente, hai capito che il tuo lavoro è amato da tantissime persone e che è parte integrante della cultura pop di questo paese...e non solo?

Me ne sono accorto tardi, soprattutto grazie a persone che la pensano come te....ne sono bastate poche ma buone, e una di queste persone è proprio l'editore della Korero Press che ora conosci anche tu perché produrrà anche i tuoi libri. Sembra incredibile che uno debba venire dall'Inghilterra per valorizzare arte italiana...ma è proprio così!

Onestamente Emanuele la cosa è tutto tranne che incredibile...

Eh purtroppo lo so. E comunque io vedevo su facebook questa persona straniera che continuava a mettere i like a tutti i miei post finché un giorno si presentò e mi disse: “Saresti d'accordo se io facessi un libro dedicato ai tuoi lavori?”. Eravamo nel 2011 e io gli dissi che ero assolutamente d'accordo.

Il tuo fu il primo volume della serie “The Art of Sex and Horror” vero?

Certo, fu il primo e fu una grande soddisfazione. Ti devo dire che una volta avuto il volume fra le mani mi sono accorto che tra i fumetti realizzati da Edifumetto “Sukia” è uno dei più belli. E non lo dico solo perché l'ho fatto io... mi ricordo che nei periodi di massima diffusione vendette anche 80/100mila copie e arrivò al numero 153...e per un piccolo fumetto come quello sono numeri importanti.

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Fra le testate che hai illustrato quali sono le tue preferite oltre a Sukia?

Allora... devi sapere che io divido le testate in due gruppi. Tra quelle più manifestamente orrorifiche sicuramente scelgo “Belzeba”, mentre nel gruppo di quelle che io definisco come “horror borghese” sicuramente “Sukia”.

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E “Cimiteria”?

Quella è una testata meno sanguinosa ma mi piaceva nonostante non abbia fatto molta presa nei cuori dei lettori come invece fece “Zora”. Per quel fumetto io feci solo una trentina di copertine, le altre le fece Biffignandi, il quale lo illustrò praticamente da solo per 2 anni e quindi tutti i meriti di “Zora” mi sento di darli a lui.

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E cosa mi dici di “Ulula”? Io la adoro!

(ride)...piace moltissimo anche a me. L'idea di questo licantropo al femminile era molto bella. Poi, dal punto di vista tecnico, fui molto fortunato perché trovai una modella perfetta che veniva nel mio studio. Mi ricordo che, ad inizio testata, le scattai un rullino di foto in diverse posizioni e ci realizzai almeno 8 o 9 copertine. Quando avevo la fortuna di trovare una modella giusta mi comportavo in questo modo. Però, attenzione, era una cosa non facile da fare se eri sposato come me....non potevo certo dire a mia moglie in continuazione che andavo da una modella! (ride)...e se poi in casa non se ne parlava..era pure meglio!

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Ma quindi solo con “Ulula” ti sei basato su una modella? E, tipo, “La poliziotta”?

No, lo stesso procedimento lo seguivo più o meno sempre. “La poliziotta” nasce da una commistione di figura umana e spunti fotografici. Devi sapere che le foto nelle riviste erano di una qualità tale che tu non saresti mai riuscito a raggiungere da solo in studio, per cui usavo una foto ma poi mi servivano quelle parti che solo una figura umana mi poteva dare. Per esempio, mettiamo che io trovassi una figura splendida e slanciata che poi però doveva essere messa in una atteggiamento particolare, tipo puntare la pistola verso di te. Allora nel disegno tenevo la ragazza della foto solo fino al busto e da lì in su copiavo una modella dal vero che potevo mettere in posa come volevo io: praticamente un taglia e cuci...e facevamo tutti così...anche Ciriello!

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Il fenomeno del vostro fumetto erotico è stato qualcosa di unico a livello mondiale, tanto che in inglese, per riferirsi ad esso, e distinguere la cosa dai fumetti normali, si mantiene la parola italiana “fumetto”. All'epoca come percepivi il fenomeno?

Mah, di sicuro se ho abbandonato il cinema era anche perché percepivo il fenomeno come molto concreto ed interessante. Furono Barbieri e Cavedon ad avere l'idea prima di tutti, gli altri poi seguirono a ruota. C'era una lotta per accaparrarsi i posti in edicola ma erano piuttosto bravi a riuscirci, quindi tu passavi e vedevi una fantasmagoria di colori creata da tutte le copertine esposte vicine. La gente passeggiava ed era costretta a fermarsi per curiosare fra quelle testate...pure io le ho conosciute così; quando ho cominciato costavano 200 lire. Un giorno andai a trovare il mio amico Dino Leonetti, che lavorava nel cinema ma che faceva anche i fumetti per i fratelli Spada, e proprio di fronte al suo studio c'era un'edicola enorme e l'edicolante ci disse che ne vendeva veramente un sacco...

Di che anno stiamo parlando?

Ero ancora a Roma, quindi doveva essere il 1969, appena prima che Barbieri e Cavedon cominciassero con le loro testate nel 1970. E fu proprio Dino che mi disse: “Ti piacciono? Vero che sono belle? Ma perché non ti metti a farle?”. Io ero tentato ma anche intimidito perché la mia specialità era disegnare l'architettura, gli sfondi per il cinema, ma non mi ero mai cimentato nella figura umana, soprattutto anatomie femminili in tutte quelle posizioni così specifiche. Dopo aver ascoltato le mie perplessità Dino mi dice. “Ma perché, la sera, quando finisci le riprese, non passi qui da me in studio che ti faccio vedere?”. Ci andai e scoprì per la prima volta l'Episcopio, strumento così fondamentale che dopo qualche settimana lo comprai pure io così mi potevo anche esercitare a casa. In quel modo potevo proiettare la foto sul foglio di carta e disegnarci direttamente sopra. Tutti i disegnatori di fumetti, all'epoca, usavano l'episcopio, era fondamentale.

E quindi cominciasti a credere in questa carriera?

Più mi impratichivo e più acquisivo fiducia, certo, Inoltre ero molto attento ad osservare il fenomeno e mi resi conto di quante persone compravano quei fumetti! Mi ricordo che mi misi ad osservare le abitudini dei lettori dall'edicolante che divenne nostro amico...non sai quanti uomini compravano il quotidiano solo per nasconderci dentro i fumetti! (ride)...ci si vergognava di comprare certe cose...è sempre stato così. Però il fenomeno era enorme, e in quel periodo era al top, io ho cominciato nel momento di maggiore boom. Tra il 1970 e il 1972 uscirono le nuove testate di Barbieri e Cavedon e poi, successivamente, i due si divisero creando due case editrici e il numero delle testate che arrivava in edicola quasi raddoppiò. La gente impazziva e c'erano quelli che li compravano unicamente per le copertine: appena arrivavano a casa, dopo una breve lettura, tagliavano la copertina e buttavano via il resto. Le ho viste con i miei occhi queste collezioni di sole copertine! E come si potevano biasimare? Erano degli autentici capolavori. Peccato che all'epoca non ne eravamo troppo consci, anche perché il mondo dell'arte e della cultura schifava questo tipo di prodotti...

Questo capitava anche nel mondo dei manifesti cinematografici. Pochissimi artisti andavano fieri di fare quel lavoro in quanto nel mondo dei Pittori disegnare i manifesti era considerato quasi un'onta, una cosa alimentare dalla quale nascondersi. Pochissimi ne andavano fieri come Ciriello per esempio, per molti altri era una sfida anche solamente firmare quei disegni...

Ah lo capisco bene! Tanto è vero che, come accennavo prima, io non ho mai firmato una copertina e come me anche tutti gli altri autori.

E pensa se aveste anche solo immaginato che oggi, sul mercato del collezionismo, quelle tavole che non firmavate nemmeno valgono migliaia di euro....

(ride)...lo so, e infatti io mi mordo ancora le mani quando penso di non aver richiesto all'editore le mie tavole. Quando la Edifumetto chiuse, credo fosse il 1994, io e Biffignandi ci siamo sentiti per vedere se riuscivamo a recuperare i nostri originali. A quel punto Barbieri ci risposte che le copertine gli erano state rubate e ci mandò anche la denuncia depositata ai Carabinieri di Bresso, dove lui aveva un altro magazzino che ci era ignoto. Una volta ero andato nel magazzino della casa editrice di Via Francesco Redi e mi ero fatto dare dalla segretaria 2 tavole delle mie...che poi sono le uniche che ho ancora oggi, altrimenti non avrei nulla. Da ciò che mi posso ricordare, l'unico che saggiamente si faceva sempre restituire le sue tavole di volta in volta fu Carcupino.

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E oggi hai un sacco di gente, me compreso, che ti chiede di realizzare opere su commissione....

Si è vero...ma tanto dico quasi sempre di no...(ride)...me le chiedono da tutto il mondo. Ho un collezionista australiano, per esempio, che è già la seconda volta che mi scrive...e poi dalla Svizzera....tra l'altro non mi risulta che in Svizzera distribuissero i nostri fumetti...so che uscirono in Portogallo, Spagna, Francia, Germania e persino Finlandia. A ciò devi aggiungere tutti gli Stati Uniti e il Canada...praticamente metà mondo. Peccato che io di questa larga distribuzione internazionale non abbia mai saputo nulla...anche perché a noi sarebbe spettata una percentuale. E sai come l'ho scoperto? Mio zio lavorava su una nave che batteva il tratto New York – Caraibi e un giorno venne a trovarmi portandomi 3 fumetti erotici con titolo in spagnolo che aveva comprato a New York: uno di quelli aveva una mia copertina! Allora andai a Milano da Conti, l'amministratore della Edifumetto e gli chiesi spiegazioni. Lui mi rispose un po' vagamente: “Ma sai sono quelle cose che ogni tanto vendiamo....tipo una su mille!” e mi diede 5000 lire. Io ci credetti e poi non ne ho più parlato....sai, all'epoca si viaggiava poco in giro per il mondo e contavano sul fatto che noi non lo saremmo mai venuti a sapere. Però devo dire che non sono per nulla arrabbiato, tanto è vero che con Conti siamo rimasti molto amici.

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