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Paolo Zelati

Books

This nicely promotional section is dedicated to my books. Unfortunately, only in Italian for now. In case you are interested in Prince of Darkness- The Realistic Fantastic in John Carpenter's Cinema and you can't find it for sale (the publishing house has gone bankrupt and the volume is out of print), contact me and I will help you. Enjoy the reading.

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Il signore del male (2008, UnMondoAparte Edizioni)

Fu nel novembre del 1985 che vidi per la prima volta Halloween e da allora, la vita, per me, non fu più la stessa. Eludendo la vigile censura dei genitori (“si tratta di un innocuo film di fantascienza” fu la semplice quanto geniale giustificazione di un bambino di dieci anni) e approfittando della complice benevolenza di un negoziante progressista, riuscii a noleggiare quella mitica videocassetta dalla copertina invitante che, così tante volte, avevo spiato nella vetrina della videoteca. All’epoca, in Italia, il mercato Home Video era agli inizi, i primi videoregistratori avevano fatto la loro comparsa nelle case degli italiani e le videocassette (dalle grandi e massicce custodie di plastica e con prezzi inarrivabili) si potevano solo noleggiare. Mi ricordo di essere rimasto mesmerizzato di fronte allo schermo, terrorizzato e contemporaneamente deliziato dalla visione di un così affascinante spettacolo. Da quanto mi posso ricordare (e da quanto mi raccontano i miei famigliari) sono sempre stato attratto morbosamente dal macabro e dal mistico regno del Soprannaturale, tuttavia, a livello di esperienza cinematografica, la cosa più “forte” che avevo visto sino a quel magico pomeriggio di novembre era stato Amityville Possession, discreto horror diretto nel 1982 da Damiano Damiani, ma che tuttavia non poteva nemmeno lontanamente essere paragonato alla “Halloween Experience” che avevo appena vissuto. Il Signore del Male aveva posato il suo tocco su di me, mi aveva mostrato cosa il cinema fosse in grado di fare e quali sensazioni (primarie, autentiche, sconvolgenti) fosse capace di risvegliare: di quel mondo, decisi inderogabilmente, dovevo assolutamente fare parte . Dopo Halloween, e di nascosto da mio padre che non si era ancora ripreso dalla furia omicida di Michael Myers, mi dedicai al veloce video-recupero degli altri film di John Carpenter: ed ecco allora che i sublimi fantasmi di The Fog, le strabilianti mutazioni di La cosa e il cinico ghigno di Jena Plissken (1997: Fuga da New York) mi resero, per sempre e senza compromessi un devoto discepolo carpenteriano. L’opera di Carpenter, però, mi aveva aperto le porte all’universo dell’Horror americano, o meglio al New Horror americano, ovvero a quella corrente di registi (Joe Dante, Tobe Hooper, Wes Craven, David Cronenberg ecc.) che, seguendo l’esempio di George A. Romero (La notte dei morti viventi, 1968), mettevano in scena storie cupe e disperate e si ergevano cantori di un “fantastico realistico” fortemente correlato alla società americana del periodo. E John Carpenter era uno di loro. Per troppo tempo, però, i più illustri rappresentati della critica cinematografica (soprattutto negli Stati Uniti) hanno considerato Carpenter e i suoi colleghi contemporanei come registi essenzialmente antiproblematici, artigiani creatori di filmetti horror senza spessore, di divertissement adatti solo ad un pubblico adolescente da drive-in. Insomma, un cinema che, in omaggio al killer del cinema carpenteriano per eccellenza, sarebbe stato unicamente Shape, cioè Forma, corpo e, per estensione, Forma senza Contenuto5. Questo è l’errore compiuto da quanti non riescono a cogliere l’enorme potenziale simbolico e sovversivo del fantastico; genere che da sempre veicola in maniera, appunto, simbolica e allegorica le ansie, le aspettative e le frustrazioni sociali di intere generazioni. Pensiamo solo alla letteratura gotica inglese del XVIII secolo (ma lo stesso discorso si può fare con la letteratura utopica e distopica; da Thomas More a George Orwell, infatti, essa è il luogo dove il rimosso politico prende forma) che con i suoi mostri, i fantasmi e i vampiri, fungeva da vero e proprio inconscio della letteratura borghese ufficiale (novel) fino alla metà del XIX secolo. Il fantastico infatti, con i suoi vari filoni, è espressione di un ambito che è sempre stato represso e rimosso, ed è connesso, quindi, alla sfera dell’inconscio. Questo genere letterario diventa il non visto della nostra realtà, la proiezione in forma di incubo di paure e timori della nostra società. Mentre nel caso della favola la critica alla società contemporanea è data dal desiderio di evadere in un mondo alternativo, nel caso della letteratura gotica (e anche del New Horror americano 70 / 80) troviamo una critica più o meno diretta alla realtà ufficiale. Contro l’immediata immersione nel reale che caratterizzava i realisti, gli scrittori gotici (H. Walpole, A. Radcliffe, G. Lewis) ponevano un permanente insieme di simboli e articolazioni dell’immaginario che rappresentavano, ad un secondo grado di lettura, i problemi e le paure della società contemporanea. Il periodo che vide la nascita del romanzo gotico era quello in cui le primitive forze dell’industrializzazione stavano producendo vasti mutamenti nel modo di vivere e lavorare delle persone. La stabilità di una struttura sociale accettata da tanto tempo, veniva dissolta fra la pressione di nuovi tipi di lavoro e nuovi ruoli sociali. Le leggi della nuova economia liberista aumentarono l’alienazione dell’individuo dal suo ambiente socio-economico. In questo tipo di società è facile individuare i legami tra la paura e la repressione dell’irrazionale e l’improvviso insorgere gotico di quello stesso irrazionale sotto forma di fantasmi e terrori. La narrativa gotica diventava così un processo di autoanalisi culturale e le immagini che essa esponeva non erano altro che le figure di sogno di un gruppo sociale turbato. Come esempio di questa “funzione sociale” della narrativa fantastica basti citare due capolavori tardo gotici come Frankestein (1818) di Mary Shelley e Dr. Jekill and Mr. Hide (1886), quest’ultimo la più chiara allegoria dell’ipocrisia e della repressione vittoriana. Analizzando allo stesso modo il cinema horror americano degli anni Settanta e Ottanta, è ugualmente facile capire il motivo per cui in una società fortemente destabilizzata (dall’assassinio di J.F.K e M. L. King, dalla guerra del Vietnam, dalla crisi finanziaria, dalla dissoluzione del modello “canonico” di famiglia, fino al caso Watergate), irrompano sullo schermo cinematografico cannibali armati di motosega, killer indistruttibili e immortali o demoni notturni con guanti dotati di rasoi. Alla luce di queste considerazioni, sembra apparire chiara e incontestabile l’affermazione del celebre studioso D. Punter secondo la quale “il principale valore dello studio della narrativa fantastica consiste nell’offrirci una ‘psicologia negativa’, una via d’accesso alle speranze e alle aspirazioni frustrate di tutta una cultura”. Con questo testo ho cercato di mettere in luce la grande forza allegorico-simbolica del New Horror americano sviluppatosi negli anni 70 e 80 e di rendere il giusto merito ad uno dei suoi più illustri rappresentanti: John Carpenter. Ho scelto di farlo analizzando otto pellicole in particolare, otto film che rappresentano al meglio (perlomeno per chi scrive) la visone carpenteriana del mondo e forniscono gli esempi adeguati per comprendere quanto il cinema di John Carpenter sia contemporaneamente lineare e complesso, ludico ed intellettuale e, soprattutto, fortemente politico senza mai essere didattico o “militante”. Nell’intervista in appendice risulta evidente quanto Carpenter, a costo di negare l’evidenza, rifugga da una lettura schiettamente politica del suo cinema in funzione di un’interpretazione più allegorica, magari più ingenuamente legata al Genere ma, comunque, priva di “messaggi” diretti. Senza contare che Carpenter, inoltre, porta avanti come pochi altri registi la lotta per una totale indipendenza creativa: il suo “fare cinema” è dunque un primo e significativo gesto politico. Allo stesso modo di Sam Fuller, Carpenter non transige di fronte all’esigenza di avere l’ultima parola sul montaggio definitivo di ogni suo film (quel famoso “Final Cut” che gli vale la piena responsabilità sul film e anche la presenza del suo nome associato al titolo – John Carpenter’s …). Ma volendo tornare a parlare di “politica” in senso stretto, occorre ricordare come John Carpenter sia stato l’unico regista americano che abbia avuto il coraggio di denunciare direttamente e lucidamente tutto il male che Ronald Reagan aveva fatto agli Stati Uniti durante gli anni del suo doppio mandato presidenziale. In Essi vivono (1989) infatti, gli alieni si mescolano tra i ricchi e controllano il potere affabulatorio dei media e della pubblicità; essi sono per Carpenter dei liberi imprenditori dello spazio che sfruttano la terra come gli americani hanno fatto per anni nei confronti del terzo mondo. Già nel 1980 la nebbia di The Fog era stata usata dal regista del Kentucky come una metafora essenzialmente politica. Carpenter voleva risvegliare la memoria addormentata del popolo americano stabilendo un parallelo tra la conquista compiuta dai Padri Fondatori (è noto come gli USA furono fondati sul massacro delle popolazioni indigene che vennero derubate della loro ricchezza) e quella del paesino costiero Antonio Bay, compiuta da sei traditori assassini. Tramite il suo primo, vero film (Distretto 13, le brigate della morte), invece, il regista americano ha messo in scena un vibrante remake metropolitano di Un dollaro d’onore per rendere testimonianza della misura in cui la violenza e il degrado si erano impadronite delle grandi città statunitensi; tematica questa che troverà pieno sviluppo nella “fumettosa” distopia nota come 1997: Fuga da New York. Ma il male, ci insegna Carpenter, avanza (spesso e volentieri) mascherato e si manifesta dove meno ce lo aspettiamo; è per questo motivo che una deliziosa cittadina del Midwest (così diversa dalla cancerosa isola di Manhattan trasformata in una colonia penale a cielo aperto) muta, durante la notte di Halloween, in un luogo di tregenda in cui tutti i peccati della comunità prendono forma (The Shape!) attraverso le gesta vendicatrici di un simbolico Uomo Nero. E non c’è salvezza. Nemmeno nei rapporti umani. Carpenter, cresciuto a Bowling Green nel Kentucky, piccola città facente parte della famigerata Bible Belt in cui razzismo ed egoismo dominavano sovrani, sa bene cosa si nasconda dietro l’apparente normalità fatta di persiane bianche, torte di mele sui davanzali e giardini bene curati. Individualismo, sfiducia nelle istituzioni, disgregazione famigliare: sono queste le caratteristiche “di secondo grado” che possiamo rintracciare nei film di Carpenter degli anni Settanta. Poi, nel 1980, la destra repubblicana e conservatrice di Ronald Reagan vince le elezioni inaugurando un decennio dominato dall’apparenza, dall’edonismo e dalla progressiva scomparsa dei contatti umani (dovuti, in buona parte, all’insorgere dell’AIDS). Sul grande schermo compare l’estetica da video clip; film come Flashdance (1983, di Adrian Lyne) o Electric Dreams (1984, di Steve Barron) diventano il mezzo perfetto per anestetizzare la mente di un pubblico sempre meno recettivo nei confronti di un’indagine critica legata alla realtà sociale vissuta quotidianamente da milioni di persone completamente acritiche verso ciò che veniva loro offerto. Infatti, l’estetica superficiale e patinata di film come Nove settimane e mezzo, (1986, di Adrian Lyne) mirava proprio ad allontanare l’interesse della popolazione (leggi “elettori”) dall’osservazione attiva e partecipe di una società sempre più compromessa. E allora è ancora un cineasta “antiproblematico” come John Carpenter a fotografare con il film La cosa (1982) una società governata da paranoia e perdita di identità, dove proprio il corpo (e le sue mutazioni: leggi cancro e AIDS) diventa il Grande Nemico. Come scrive acutamente Giorgio Cremonini in un saggio del 1983, “non dobbiamo più stare attenti al cielo. La cosa è già dentro di noi”. Nel corso degli anni Novanta, l’interesse di John Carpenter si è relativamente spostato dalle tematiche sociopolitiche (ma sarebbe meglio dire dalla rielaborazione “fantastica” dei mutamenti osservati in ambito sociale) all’analisi dei rapporti che si istaurano tra spettatore, regista e personaggio di fiction; il fantastico realistico carpenteriano (senza, peraltro, abbandonare lo sguardo sul sociale) si occupa, quindi, di leggere e interpretare il funzionamento e le implicazioni della “macchina cinema”. Se già con Essi vivono Carpenter approfondisce e sviluppa il tema della “visione”, nel 1994 il regista realizza il suo progetto più ambizioso: Il seme della follia, un viaggio metacinematografico tra i mondi paralleli di H.P. Lovecraft e P.K. Dick che riflette sulla percezione della realtà e sul condizionamento messo in opera dai mezzi di comunicazione di massa. Il 1996, invece, vede il ritorno di Jena Plissken in Fuga da L.A., geniale saggio di metacinema tramite il quale Carpenter attacca dall’interno (il film è prodotto dalla Paramount!) le grandi major hollywoodiane nonché la logica stessa del sequel-remake, confermando di essere sempre più, come ha lucidamente osservato Kent Jones, “un uomo analogico in un mondo digitale” Negli ultimi anni, John Carpenter non si è dimostrato molto prolifico. Dopo averci regalato quel gioiellino chiamato Fantasmi da Marte (2001), una specie di saggio-teorico atto a riassumere in un unico “contenitore” tutte le caratteristiche fondamentale del cinema carpenteriano (oppure si potrebbe definire come un “Distretto 13 su Marte” in cui gli “oscuri assedianti” non sono più i fantasmi degli indiani americani, ma i rappresentanti di tutte quelle popolazioni indigene espropriate dall’imperialismo a Stelle e Strisce), il regista di Halloween ha preferito prendersi una pausa di riflessione, nella quale ha trovato il tempo di realizzare due preziosi episodi per la fortunata serie TV “Masters of Horror” creata e prodotta dal regista/sceneggiatore Mick Garris. Ma è un pausa che, quasi sicuramente, sarà destinata ad interrompersi presto perché, come dice sempre John, “il Male non muore mai”.

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AMERICAN NIGHTMARES (2013, Profondo Rosso Editore)

Considerata come una delle fasi più importanti nella storia del cinema Fantastico contemporaneo, l'inizio del New Horror americano è databile a metà degli anni Sessanta con la nascita del pirotecnico gore di Herschell Gordon Lewis, per terminare, poi, verso la fine degli anni Ottanta quasi nello stesso modo, ovvero con lo splatter e le mutazioni del “body horror”. Durante questi vent'anni l'Horror americano ha cambiato volto subendo una vera e propria rivoluzione sia sul piano narrativo che su quello visivo: i morti viventi di George Romero (il vero groundbreaker a livello concettuale), i cannibali armati di motosega di Tobe Hooper, i mutanti di Larry Cohen e gli oscuri assedianti di John Carpenter non agivano più dalla rassicurante lontananza di oscuri castelli europei ma, al contrario, colpivano direttamente nel cuore della famiglia americana. La minaccia, in altre parole, non è più “out there” ma bensì “within” the American Dream. L'idea per questo libro mi è venuta nel 2000, dopo aver visto American Nightmare, ottimo documentario nel quale Adam Simon applicava al New Horror americano quel tipo di analisi che, da sempre, prediligo associata al mondo del Fantastico: portare in luce le implicazioni metaforiche ed i parallelismi con la società di appartenenza. Il cinema fantastico (così come la letteratura), infatti, è sempre stato il vettore più importante e significativo tramite il quale autori illuminati potevano permettersi, protetti dalla maschera della “fantasia”, di fare critica sociale e di portare in luce ansie, paure e desideri di intere generazioni nel modo, per altro, più diretto ed efficace possibile. Un romanzo “fantastico” come The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde (Lo strano caso del Dr Jekyll e del Signor Hyde) di Stevenson – ma il discorso potrebbe essere esteso a tutta la letteratura gotica del periodo - , infatti, è ancora oggi la più chiara allegoria (nonché testimonianza letteraria) del clima repressivo, castrante e bigotto che si respirava nella Società Vittoriana. Lo stesso discorso si può fare anche per la famosa distopia di George Orwell 1984 o per il romanzo The War of the Worlds (La guerra dei mondi) in cui, sempre attraverso il filtro del fantastico, H.G. Wells criticava l’imperante colonialismo. Esattamente nello stesso modo, nell'America degli anni Settanta, film horror come The Last House on the Left (L’ultima casa a sinistra, 1972), The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta, 1974), It's Alive (Baby Killer, 1972) o Deathdream (La morte dietro la porta, 1972) risultano pellicole disperatamente politiche e legate a doppio filo al clima socio-politico di una nazione che, sotto i colpi della Guerra del Vietnam, dello scandalo Watergate, dello sfaldamento del modello di “famiglia ideale” e della crisi economica aveva perso tutti i punti di riferimento, e dove la parola “identità” era ormai diventato un concetto astratto. Anche negli edonistici anni Ottanta, ovvero “l'età dell'apparenza”, la nascita del “body horror” si può leggere come una reazione dell’inconscio collettivo all’insorgere di malattie terrificanti e sconosciute come l’AIDS e ad altre ossessioni contemporanee come il “culto del corpo” e la paura di invecchiare. Tramite un film come They Live (Essi vivono, 1989), solo per fare un altro esempio, John Carpenter ha utilizzato un canovaccio di fantascienza ed uno stile quasi da fumetto per descrivere, meglio di qualsiasi documentario, lo stato di estrema decadenza (sia morale che economica) in cui erano piombati gli Stati Uniti sotto l’amministrazione di Ronald Reagan. L'aspetto più interessante in un film come American Nightmare è osservare come i diretti interessati (nello specifico: John Carpenter, Wes Craven, George Romero, David Cronenberg, John Landis, Tom Savini e Tobe Hooper), pur convergendo su determinati punti, affrontino l'analisi socio-politica dei propri film da un punto di vista, spesso, differente. Il vero nodo gordiano, però, il pomo della discordia rispetto a questo approccio al cinema fantastico è legato alla volontarietà o meno di determinati messaggi all'interno del testo filmico. Partendo quindi dal lavoro di Simon e da una stimolante dichiarazione di Tobe Hooper (“solo diversi anni dopo abbiamo capito perché giravamo determinate cose”) ho voluto approfondire gli spunti di American Nightmare allargando, però, il numero di intervistati a tutti i più significativi registi del ventennio in questione ed inserendo anche le testimonianze di tre importanti sceneggiatori come Dennis Paoli, John Sayles e, soprattutto, Richard Matheson, colui che con il romanzo I Am Legend (Io Sono Leggenda, 1954) ha praticamente plasmato il Fantastico moderno. Il mio scopo, però, non era solo quello di scoprire fino a che punto e con che livello di consapevolezza gli autori del New Horror americano abbiano raccontato attraverso i loro incubi di celluloide la società statunitense degli anni 70 e 80; American Nightmares, infatti, propone 33 “interviste carriera” (ricche di aneddoti ed informazioni anche inedite sul making of dei film), da me realizzate tra Europa e Stati Uniti dal 2003 ad oggi, nel corso delle quali emergono altrettanti ritratti di uomini che, per una ragione o per l'altra, hanno consacrato la loro vita alla magia del cinema. Ho voluto, in pratica, celebrare uno dei periodi più esaltanti del cinema Fantastico attraverso le parole dei protagonisti, i quali mi hanno regalato racconti sinceri, divertenti e appassionati, che a volte si incrociano e si completano (un esempio per tutti: attraverso i ricordi di Roger Corman, John Sayles, Jack Hill e Joe Dante prende vita un ritratto molto preciso e deliziosamente romantico dell'ambiente di lavoro alla New World Pictures nel corso dei primi anni Settanta) mentre altre volte sono in netto contrasto fra loro, soprattutto riguardo al macro-tema al centro di questo studio, facendo emergere le diverse personalità di autori poco inclini ai compromessi e motivati da autentica passione. Secondo Bill Lustig, John Landis e Don Coscarelli i film rispecchiano sicuramente la società dell'epoca e le problematiche ad essa collegate anche e indipendentemente dalla volontà dell'autore. Brian Yuzna sembra intimorito dalla parola “politica” ma ammette tranquillamente i significati metaforici di un film come Society preferendo, però, parlare di "sociale" e ricondurre il tutto nel contesto di una mitologia narrativa. Clive Barker considera il Fantastico l'unico mezzo per poter parlare di determinate tematiche in modo efficace anche se metaforico e allarga il discorso dal cinema alla letteratura, arte, fotografia e teatro. Dello stesso avviso sono anche Frank Henenlotter e Stuart Gordon, i quali sostengono che grazie all'horror la critica socio-politica assume addirittura più efficacia del documentario. Anche Tobe Hooper, Joe Dante, Mick Garris, Dennis Paoli e John Sayles rispondono in modo entusiasta a questo tipo di interpretazione e Jeff Lieberman arriva addirittura a dichiarare che gli horror con un secondo grado di lettura ed una valenza socio-politica sono gli unici che abbia senso fare ed anche guardare. Piena consapevolezza metaforica anche per Bob Clark, Ethan Wiley e Fred Dekker, i quali analizzano i loro “Vietnam horror” in modo molto lucido. George Romero è molto sincero rispetto alle componenti socio-politiche consce ed inconsce presenti nei suoi film; cinico rispetto a facili interpretazioni di questo tipo, riconosce comunque che l'horror ed il Fantastico sono i vettori privilegiati per registi che vogliano fare critica sociale ed esprimersi liberamente. I Chiodo Bros, proprio come molti loro colleghi, sottolineano il collegamento fra il Torture Porn degli ultimi anni e la cronaca legata alla guerra con l'Iraq, mentre David Cronenberg non nega gli aspetti sociali e metaforici del suo cinema, ma più che di messaggi o di politica, preferisce parlare di "dibattiti". Herschell Gordon Lewis, pragmatico fino al midollo, non nega la possibilità di fare critica sociale attraverso l'horror ma considera l'aspetto Entertainment primario su qualsiasi tipo di messaggio. A lui fa eco, ovviamente, Roger Corman, per il quale la prima preoccupazione è sempre stata quella di non perdere soldi e ottenere il massimo risultato (anche economico) con il minimo sforzo produttivo. Ciò non vuol dire, però, che Roger non abbia ben presento l'enorme potenziale metaforico del cinema fantastico e che non l'abbia usato per fare, in un contesto prettamente di intrattenimento, anche della satira socio-politica. Loyd Kaufman, sornione, ama fare il finto tonto, si nasconde dietro allo stile estremo della Troma ma in alcuni momenti di lucidità sottolinea i consapevoli messaggi e sottotesti sociopolitici presenti un buona parte dei suoi film. Simile anche l'approccio di John Carpenter, protetto da uno scudo di tagliente ironia e finto cinismo, non ama parlare dei sottotesti metaforici dei sui film ma, adeguatamente stimolato, quando ha capito che non gli stai dando del "comunista", scopre le carte. Jack Hill è un vero intellettuale e ama studiare tutti gli aspetti del Fantastico, compresi quelli metaforici; però, quando si arriva a parlare dei suoi film, tutto viene ricondotto al campo dell'inconscio. Sean Cunningham è un vero e proprio volpone del mondo del cinema; sa dove mettere le mani e, soprattutto, come dicono gli americani, "he knows how to take care of business". Questo suo pragmatismo, però, si accompagna ad una profonda capacità di analisi e, anche se non è troppo convinto dei messaggi consciamente trasmessi attraverso i film horror, analizza le implicazioni sociali legate al Fantastico con ironia ma, anche con grande lucidità. Richard Matheson riconosce il collegamento tra Fantastico e periodo storico di appartenenza ma non ha mai avuto un buon rapporto con messaggi e metafore, preferisce rivendicare il suo ruolo di storyteller completamente svincolato da ogni connotazione politica. William Friedkin non è un horror fan e non ama nemmeno etichettare The Exorcist (L'esorcista) come un horror; di conseguenza non conferisce al genere un'importanza cruciale nemmeno dal punto di vista metaforico, anzi il regista americano propende soprattutto per una spiegazione "inconscia" degli eventuali parallelismi tra cinema e società. Richard Donner e Tom Holland, invece, di politica non vogliono nemmeno sentir parlare ed indicano nell'Entertainment il primo obiettivo di un bravo regista. Riconoscono che alcune dinamiche sociali si possano riflettere nel cinema fantastico, ma di fronte alle "letture" dei critici, hanno sempre la battuta pronta. Chiude la carrellata il grande Dan O'Bannon, secondo il quale i film horror possono sicuramente avere una valenza socio-politica…peccato che – parole sue - “non gliene freghi un cazzo". Prima di lasciare la parola agli autori, mi preme dare un'ultima delucidazione, anche perché i più esperti nel settore, leggendo l'indice di questo libro si saranno già posti la fatidica domanda: “Ma come mai mancano Wes Craven e Sam Raimi?”. La risposta è molto semplice: non si sono fatti intervistare. Solo che, mentre Raimi, ormai regista MainStream super impegnato, mi ha dato buca “solo” tre volte (peraltro annullando sempre l'appuntamento il giorno prima...) Wes Craven invece, e lo dico ormai quasi con affetto, non ha proprio giustificazioni, essendosi fatto “corteggiare” per 7 anni senza mai concedersi, tanto che la cosa, tra chi mi conosce, è diventata quasi una barzelletta. Decine di persone (fra le quali, giusto per citarne due, Sean Cunnigham ed Eli Roth) hanno tentato di intercedere per me, io stesso l'ho incontrato diverse volte, l'ultima delle quali al Festival of Fear di Toronto nel 2008. Eravamo in una green room io, Ruggero Deodato, Craven e Buz Aldrin, il secondo uomo sulla luna e Wes dichiarò, ancora una volta, la sua intenzione a far parte del libro: non l'ho più sentito. Ora, se proprio non riuscite a fare a meno della sua opinione, contattatemi e vi giro ciò che mi ha mandato la sua assistente, qualche anno fa, dopo l'ennesimo annullamento dell'ultimo minuto: delle interessantissime interviste in spagnolo (!) risalenti ai primi anni Ottanta....buona lettura.

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L'alba degli zombi (2011, Gargoyle Edizioni)

Il biennio 2011-2012 viene salutato come la nuova stagione dei morti viventi. Che spetti agli zombie il compito di traghettarci verso l'attesa apocalisse del dicembre 2012? Di certo nessuno se lo augura sul serio, ma chi, meglio dei non-morti di George Romero, può aspirare al titolo poco ambito di "araldi dello sterminio"? A più di quarant'anni dall'uscita deflagrante del film "La notte dei morti viventi" - mito di fondazione dello zombie post-industriale non si placano le passioni e le "fameliche" aspettative dei fan. Né diminuiscono film, libri e serie Tv. Una nuova "alba degli zombie", sperando non sia l'ultima, sta sorgendo. La presente opera ambisce a connotarsi come stimma sull'esalogia romeriana dei living dead, proponendosi come punto di riferimento per appassionati, ricercatori o semplici curiosi. Il libro ripercorre la storia, dal 1968 a oggi, dei film suddetti e delle innumerevoli ricadute della mitologia dello zombie in campo culturale e cinematografico, con una messa a fuoco particolare sull'orizzonte socio-politico del non-morto e sulle sue tante rivisitazioni nella fiction. Una paura che continua a materializzarsi nel luogo classico del trauma collettivo: il cinema. Accanto ai saggi complementari di Danilo Arena, Selene Pascarella e Giuliano Santoro, un'intervista esclusiva a George Romero a cura di Paolo Zelati.

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Quaderni di Sangue (2011, UnMondoAparte Edizioni)

I "Quaderni di Sangue" è un progetto nato nel 2010 insieme ad Alberto Pallotta, il quale mi chiese se volevo dirigere una collana monografica di UnMondoAparte dedicata ai cult movies. Ovviamente ho accettato con entusiasmo e da questa avventura sono stati partoriti 4 ottimi volumi, opere di approfondimento dedicate a capolavori assoluti della Settima Arte. "Gli uccelli di Alfred Hitchcock" (Danilo Arona), "Bram Stoker's Dracula" (Stefano Leonforte), "Suspiria di Dario Argento" (Davide Ottini e Vincenzo Del Corno) e "Dawn of the Dead di George Romero" (Giovanni Aloisio e Lorenzo Ricciardi). In questi volumi gli autori hanno affrontato la genesi, la realizzazione e l'analisi storico/critica di quattro film che hanno lasciato il segno nella Storia del Cinema (no solo) Fantastico.

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