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Paolo Zelati

Essays

LA LUPA MANNARA: QUANDO L'HORROR E' SESSUALITA'

Approfondimento pubblicato su Diabolique

Il cinema fantastico italiano, soprattutto nella tradizione del filone gotico inaugurata nel 1956 da Riccardo Freda con I vampiri, ha sempre riservato alla donna un ruolo di primo piano. Eroine, vampire, vittime o crudeli streghe ingannatrici le donne del fantastico italiano sono le figure cardine attorno alle quali si sviluppa l’opera di maestri del genere come Mario Bava o Antonio Margheriti. Il realismo dell’horror gotico italiano concentra l’attenzione su una rappresentazione del male non più caratterizzata da mostri più o meno stereotipati (come per esempio i classical monster-movies della Hammer), ma da esseri psicologicamente e fisicamente devastati da profondi conflitti interiori. Barbara Steele è senza dubbio l’attrice che più profondamente incarna “la donna” del gotico italiano, il volto attraverso il quale possiamo rintracciare le tematiche principali che caratterizzano il genere: dualismo peccato / redenzione, la donna portatrice di malvagità (spesso connotata nella sfera sessuale) e la costruzione del tema del doppio. Ma è proprio la sessualità, o meglio i suoi lati oscuri e repressi, a diventare il tema cardine del gotico italiano, il motore ultimo per l’incedere del male, della minaccia. Temi forti come la necrofilia (L’orribile segreto del Dr. Hichcock, 1963) e il lesbismo (Un angelo per Satana,1965) vengono affrontati rispettivamente da Riccardo Freda e Camillo Mastrocinque, mentre in Danza Macabra (1963) Antonio Margheriti rappresenta la morte come unica possibilità di esaudire la propria voglia d’amore. Durante gli anni 70, i castelli e i cimiteri spariscono dalla scena in favore di location più realistiche e contemporanee come metropoli claustrofobiche ed alienanti (Macchie Solari, 1975) o paesini di campagna (La casa dalle finestre che ridono, 1976). L’uccello dalle piume di cristallo, diretto da Dario Argento nel 1969, “libera (per usare le parole che John Carpenter ha dedicato a La notte dei morti viventi parlando dell’horror americano) l’horror italiano dal mortale abbraccio del gotico”, favorendo storie dure e scioccanti dove la violenza è sempre più esplicita e meno suggerita. Quello che non cambia è l’enfasi che i registi italiani dedicano alla sessualità e alle sue deviazioni (fisiche e psicologiche) come fonte di puro terrore. I vari filoni che in questo periodo si sviluppano nel cinema italiano detto “di exploitation”, consentono di sviluppare questa tematica nel modo più diretto e sensazionale possibile: pensiamo ai cannibalici come Ultimo mondo cannibale (1977), ai nazi-erotici come La bestia in calore (1977), ai nunsploitation come Suor omicidi (1978), ai rape & revenge come L’ultimo treno della notte (1975) fino ai polizieschi come Milano odia: la polizia non può sparare (1974) .

In questo contesto viene realizzato La lupa mannara (1976), film esemplare nel suo incorporare in un’unica storia tutti i generi di maggior successo dell’epoca. La storia racconta di Daniela (Annik Borel), una ragazza che non riesce ad avere un vita sessuale normale a causa di uno stupro subito durante l’infanzia. Un giorno scopre che una sua antenata (alla quale assomiglia anche fisicamente) era stata uccisa perché accusata di essere un licantropo. Questa scoperta terrorizza Daniela, la quale sogna di trasformarsi, a sua volta, in un lupo mannaro. Un giorno la sorella Elena (Dagmar Lassander) e suo marito Fabian (Andrea Scotti) decidono di farle visita: durante la notte Daniela impazzisce e, dopo un tentativo di seduzione, uccide Fabian con furia selvaggia. Da qui in poi la ragazza si trasforma in una pazza assassina e la polizia si mette sulle sue tracce. La situazione sembra migliorare quando Daniela incontra Luca (Renato Rossigni) e se ne innamora; l’illusione però dura poco perché tre delinquenti entrano in casa, la stuprano e uccidono brutalmente Luca. L’ennesimo trauma “trasforma” completamente Daniela in un animale selvaggio in cerca di vendetta che uccide i tre delinquenti e poi sparisce nella foresta. Il film (che muta dalla tradizione gotica il personaggio principale della donna, o meglio della sua sessualità, “come minaccia”) comincia come un horror, prosegue come un thriller e finisce come un Rape & Revenge, il tutto senza troppi brividi. L’unico elemento di reale interesse risiede nel modo in cui il regista sviluppa il tema della “bestia interiore” come metafora di un disagio psicologico piuttosto che buttarsi sulla facile lettura soprannaturale della licantropia. Intervistato a proposito della valenza metaforica del film, Rino De Silvestro ha dichiarato: “La protagonista del film doveva essere una donna realmente in grado di calarsi in una licantropa... Annick Borel, non truccata, era incredibilmente simile a un lupo. La trovai in Svizzera, era un'aspirante attrice amica di un produttore. Le feci un provino e scrissi la sceneggiatura apposta su di lei. Non credo che nessuno abbia mai trattato il tema della licantropia col mio stesso rigore scientifico. Io non sono caduto nel tranello di portare sullo schermo gli ululati. Ho preso il passato ancestrale del personaggio, una condizione di vita frustrante nella sessualità, in più ho voluto inserire l'elemento naturalistico: la luna piena” (taken from “Nocturno Cinema”). Nonostante “il rigore scientifico” paventato da Di Silvestro si risolva in un mucchio di spiegazioni scientifiche semplicemente deliranti, il fatto che la protagonista non si trasformi mai davvero in una lupa (tranne nella sequenza onirica iniziale onirica) pare avvalorare la tesi del regista, ma il film è troppo sleazy per essere presa sul serio . Anche Joe Dante e John Sayles, quasi contemporaneamente, hanno raccontato una storia di licantropi con questa chiave di lettura, ma mentre The Howling è un film divertente, intelligente e stilisticamente accattivante, La lupa mannara si ricorda solo per l’imbarazzante trucco di Annik Borel (con il naso finto e i peli sulle tette) e le tante scene di nudo accompagnate dalla musica cheap di Coriolano Gori: il resto è noia. Anche seguendo i canoni del perfetto exploiter (Di Silvestro aveva precedentemente firmato Woman in Cell Block 7 e Red Lights Girls) c’è da rimanere delusi in quanto la violenza e il gore sono praticamente assenti e le scene erotiche non si possono certo definire “indimenticabili”. Quando il film fu distribuito non fece un grande successo e, a causa dei suoi contenuti licenziosi venne attaccato dal Centro Cattolico Cinematografico che lo bollò come “Inaccettabile e negativo”. Negli Stati Uniti venne invece distribuito in una versione pesantemente tagliata e che durava 70 minuti rispetto ai 98 originali.

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