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Paolo Zelati

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GANGS OF NEW YORK

Recensione pubblicata su Il Mucchio Selvaggio, Gennaio 2003

"Gangs of New York” si apre all’insegna della violenza, con una feroce battaglia tra i Nativi americani capeggiati da Bill il Macellaio e i papisti irlandesi guidati da padre Vallon, e si chiude nello stesso modo, in un bagno di sangue. Sono passati sedici anni, i giochi si sono allargati, ma la risposta degli “uomini” e quindi della società è sempre la stessa. Con questo coraggioso e lucido spaccato storico tratto dal libro omonimo di Herbert Hasbury, uno dei più grandi registi americani come Martin Scorsese ci racconta senza mezzi termini come gli Stati Uniti d’America siano stai fondati sul sangue (e non solo quello degli indiani) e come la società americana abbia sempre dovuto fare i conti con i problemi razziali, o meglio con la “paura dell’altro” e del diverso. Non importa che il nemico sia l’immigrato irlandese, l’uomo di colore, l’ispanico o il comunista; Scorsese ci mostra chiaramente come il conflitto e la necessità di identificare un nemico sia e sia sempre stato un elemento fondante della società americana. Dopo la vittoria nella seconda guerra mondiale e l’inutile quanto spettacolare dimostrazione nucleare del presidente Harry Truman ai danni di un Giappone già deciso alla resa, l’esecutivo del governo americano ha cominciato a costruire quella “strategia del terrore” (spiegata egregiamente nel film da Bill il Macellaio quando, con la bandiera americana sulle spalle, si sfoga con il giovane Amsterdam) che mutuando l’orwelliano bisogno di una “Guerra Perenne” ha permesso (e permette tutt’ora) di tenere sotto controllo milioni di ignari cittadini-consumatori canalizzando le loro paure in una Infinite Struggle contro un nemico tanto necessario quanto sfuggevole che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha indossato le maschere di Bin Laden prima e di Saddam Hussein poi.

Scorsese ci parla di questo e di molto altro con un film duro e violentissimo, che oltre a raccontare le sanguinose origini degli Stati Uniti tramite la storia della città di New York, ci parla in modo diretto dei problemi attuali di una America dove il razzismo è tutt’altro che sopito e dove le bande di diverse etnie si danno ancora battaglia per governare i quartieri delle grandi metropoli (ricordate Colors?). Il regista italo-americano non risparmia nemmeno una frecciata nei confronti dei brogli elettorali avvenuti in Florida alle ultime elezioni presidenziali mettendo sempre nella bocca di Bill una serie di ironiche considerazioni sulla funzione dei Grandi Elettori. Ma è con lo stupendo montaggio alternato dell’ultima parte del film che Scorsese arriva veramente al punto: da un lato vediamo le due bande di quartiere pronte ad affrontarsi mentre dall’altro lato la vera battaglia è combattuta dal popolo americano insorto contro il governo centrale colpevole di aver fissato la leva obbligatoria solo per chi non è in grado di riscattarsi pagando 300 dollari. Questa “guerra dei ricchi”, come viene definita, ha echi lontani che passano dalla Corea al Vietnam (pensate ai personaggi dei soldati ispanici e di colore presenti in Platoon e in Full Metal Jacket) fino ad arrivare ai giorni nostri.

L’importanza capitale di questa sequenza risiede nella sua grande forza simbolica ed evocativa di quello che è a tutt’oggi il vero problema con il quale il governo americano deve fare i conti; molto più serio e concreto di un attacco batteriologico da parte dell’Iraq. Mi riferisco al vero nemico del Presidente Bush: buona parte del popolo americano. Infatti, anni di disastrosa gestione economica federale di quella vasta zona che si può identificare come l’ America rurale, hanno generato un’insoddisfazione popolare talmente profonda da creare veri e propri eserciti armati e indipendenti pronti ad insorgere contro il governo (le ultime stime parlano di quattro milioni e mezzo di persone). La dissennata politica agricola condotta principalmente durante l’amministrazione Reagan (1982 – 88) ha ridotto molti coltivatori sull’astrico, i quali oltre a perdere la fattoria hanno perso la propria identità. La rabbia che ne è derivata è stata terreno fertile per quelle organizzazioni antigovernative razziste e fondamentaliste come l’Aryan Repubblican Army o la Christian Identity che hanno potuto ingrossare enormemente le proprie fila. Lo stato è diventato il nemico da sconfiggere per gruppi come i Freemen del Montana o i capi della Repubblica del Texas (che dal 1993 si è dichiarata indipendente dagli USA, stampandosi nuove carte d’identità e nuova valuta) e i “tribunali del popolo” sono sorti ovunque come i funghi. All’interno degli elementi più radicali di movimento antigovernativo, l’obiettivo è tornare alla Costituzione “organica”; la versione originale, in cui neri, immigrati e donne sono relegati in una cittadinanza di seconda classe senza diritto di voto. Da ricordare, inoltre, che le leggi che ora governano la cultura rurale (il 90% del territorio nazionale) sono sotto il controllo totale di una minoranza urbana che vive nell’altro 10% degli Stati Uniti; maggioranza che spesso ignora il modo di pensare della gente di cui controlla la vita. Come afferma Joel Dyer nel suo illuminante saggio “Raccolti di Rabbia”: “Se questa situazione non cambia, allora i semi dell’influenza negativa che sono stati piantati nella disperazione dell’America rurale giungeranno a maturazione, portando i frutti di un rancore quale gli USA non hanno mai conosciuto prima d’ora”, (ed è ancora Bill il Macellaio a ricordarcelo, quando prima di morire trafitto da una scheggia di bomba governativa afferma: “Per fortuna muoio da vero americano!”).

Prima che Scorsese portasse il dibattito in questione nell’”Olimpo” del main stream, altri due registi americani di “genere” avevano osato mettere il pubblico americano faccia a faccia con i propri problemi. Nel 1981 con il sinistramente profetico “1997 - Fuga da New York” il sommo John Carpenter ha usato la fantascienza (da sempre vettore privilegiato nell’affrontare le ansie sociali di intere generazioni) per descrivere una New York fatiscente e ridotta ad un carcere di massima sicurezza nella quale le bande si affrontavano per il dominio della città; mentre nel 1998 Joe Dante ha affrontato molto più apertamente il problema delle milizie separatiste con il grottesco e molto coraggioso “La seconda guerra civile americana”. Ma l’indubbio valore allegorico di questi due film è stato troppo spesso scambiato da una critica “distratta” (soprattutto negli USA) per un ingenuo divertissement. Non c’è da stupirsi, quindi, che anche “Gangs of New York” abbia lasciato perplessa buona parte della critica americana che lo ha giudicato noioso e pretenzioso: d’altronde, come si dice, “non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere”.

VOTO 10

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