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Paolo Zelati

Recensioni

WOLF CREEK

Recensione pubblicata su Horror Mania nel Novembre 2005

"Ogni anno in Australia scompaiono 30 mila persone. Alcune vengono ritrovate nel giro di un mese. Altre nel giro di un anno. Altre ancora non vengono più ritrovate. Ma come si fa a ritrovare qualcuno quando nessuno sa che è scomparso?”; questo è l’inquietante incipit di Wolf Creek, uno degli horror più interessanti degli ultimi anni. Si sa, il genere horror è sempre stato legato a doppio filo con la cronaca nera, con quei fatti di sangue così spaventosi ed aberranti da trasformare giornalisti seri ed affermati in “segugi da Tabloid” affamati di sensazionalismo: “Quando la realtà supera la fantasia” è una delle tipiche frasi utilizzate per gli occhielli dei quotidiani nazionali nei casi particolarmente cruenti e sorprendenti. E allora anche il cinema dell’orrore si è adeguato, ha giocato, negli anni, con questo “corto circuito” mediatico, ha ribaltato a proprio favore quella compenetrazione dei piani finzione / realtà che funge di per sé (e indipendentemente dalla qualità del film in questione) a catalizzare l’attenzione di un pubblico assetato di torbidi brividi “reali”. Persino capolavori dell’horror contemporaneo come Non aprite quella porta hanno usufruito di un finto background di cronaca per introdurre le gesta della famosissima famiglia texana di cannibali: in realtà il plot è stato completamente inventato dalla fervida immaginazione di Kim Henkel e Tobe Hooper mentre l’unico appiglio alla realtà è da ricercare ancora una volta nel serial killer Ed Gein, sulla figura del quale è stato, in parte, modellato il personaggio di Leatherface. Ma la bufala più clamorosa (e anche la più efficace e redditizia) ce l’hanno propinata due simpatici studenti americani che rispondono al nome di Daniel Myrick e Edoardo Sanchez i quali con The Blair Which Project, hanno trasformato il loro mediocre saggio di fine anno in un progetto multimediale senza precedenti.

Anche Wolf Creek si inserisce in questo filone “realista” ma, a differenza di The Blair Which Project, è un film magnifico. La storia comincia su una spiaggia australiana dove il nativo Ben (Nathan Phillips) incontra le due turiste inglesi Liz (Cassandra Magrath) e Kristy (Kestie Morassi). Insieme decidono di prendersi l’ultima sbronza per poi partire per un viaggio di tre settimane attraverso le selvagge lande australiane. L’ottima prova degli attori e l’abilità del regista Greg Mclean consentono una spontanea empatia nei confronti dei protagonisti che appaiono da subito naturali ed affiatati. Dopo aver comprato una scassatissima macchina usata i tre si recano a visitare il meraviglioso cratere naturale di Wolf Creek nel quale trascorrono l’intera giornata. Una volta ritornati alla macchina scoprono che la batteria non funziona più e che i loro orologi non danno nessun segno di vita. Infreddolito e terrorizzato il trio si rifugia all’interno della vettura e spera in un improbabile soccorso. Per passare il tempo Ben racconta alle ragazze delle strane storie che si raccontano su dei presunti avvistamenti alieni nei dintorni di Wolf Creek ma all’improvviso, anticipato da strane luci azzurre (gli alieni? No, bisogna sempre ricordare che “la realtà supera la fantasia”) arriva un corpulento camionista australiano che si offre di rimorchiare la loro macchina. Ovviamente le sue intenzioni non saranno proprio amichevoli…ma andare oltre nel raccontare la trama sarebbe un delitto. Vi basti sapere che la sceneggiatura è stata basata su alcune storie vere accadute nel deserto australiano nel corso degli ultimi anni: la misteriosa sparizione (nel 2001) del turista Peter Falconio e soprattutto le sanguinose gesta di Ivan Milat, il più famoso serial killer d’Australia, colui che tra il 1992 e il 1993 ha ammazzato 7 turisti.

Guardando lo straordinario lavoro compiuto sul piano visivo da Greg Mclean e dal direttore della fotografia Will Gibson è difficile credere che si tratti del loro esordio nel lungometraggio: girato in Alta Definizione e poi riversato in 35 mm il film regala dei momenti di grande cinema e il paesaggio (spesso ripreso attraverso meravigliosi campi lunghi) assume un’importanza narrativa fondamentale nella costruzione della storia. Wolf Creek, comprato a scatola chiusa dalla New Dimension per la distribuzione americana, ha riscosso un ottimo successo al Sundance Film Festival ed è stato proiettato all’ultimo Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs (trent’anni fa la stessa sorte era toccata a Non aprite quella porta). Con meno di 2 milioni di $ Greg Mclean è riuscito a confezionare un film duro, teso e vibrante che durante i primi 45 mn “costruisce l’atmosfera” per poi scatenare nell’ultima mezz’ora una vera e propria gore fest (e bisogna ammettere che alcuni passaggi sono davvero disturbanti: ricordatevi la frase “Head on a stick!”). Ma l’elemento più interessante del film risiede nella costruzione del cattivo. Questo omone australiano dalla pronuncia marcata (impagabile se visto in lingua originale) è la perfetta sintesi tra il classico Uomo Nero (altro ché Boogeyman!) e l’altrettanto classico rappresentante della Southern Scare americana, ovvero il motore centrale dell’horror rurale che possiamo trovare in film (tra gli altri) come Un tranquillo week-end di paura, 2001 Maniacs e Le colline hanno gli occhi. Mclean gioca con lo stereotipo cinematografico dell’australiano bontempone alla Crocodile Dundee ribaltandone l’immagine di 360°: quando, ad un certo punto il camionista (John Jarrat) si trova ad inseguire una delle sue vittime, ed essa gli punta contro un coltellino svizzero in un estremo tentativo di difesa, egli commenta sfoderando il suo machete: “Coltello quello?! Questo è un coltello!!!”. Se vi ricordate bene Crocodile Dundee non devo aggiungere altro.

VOTO: 7

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