Paolo Zelati

Saggi

L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI DAVID CRONENBERG

Saggio pubblicato sul catalogo del Lucca Film Festival 2015

“Se l'ho diretto io è, senza ombra di dubbio, un film di Cronenberg”. E' con questa ironica ma anche decisamente lapidaria risposta che David Cronenberg si “sbarazza” da par suo dell'ormai leggendario tormentone caro a molta critica sia italiana che straniera: “Ma questo è veramente un film cronenberghiano?!”. Fra tutti i grandi registi contemporanei talmente unici ed originali da essere “diventati aggettivi”, Cronenberg è forse quello che associa questo indubbio onore ad un certo grado di malcelata irritazione quando il termine “cronenberghiano” viene usato un po' a casaccio o quando (ed è la maggior parte dei casi) cade vittima di un superficiale e molto comune misunderstanding: descrivere la forma piuttosto che il contenuto della poetica propria al regista canadese. A questo proposito, è molto interessante osservare come persino le definizioni ufficiali di tali aggettivazioni contengano, in nuce, questa sostanziale differenza. Consultando, infatti, la celeberrima Treccani, alla voce “felliniano” troviamo: “Relativo al regista cinematografico Federico Fellini (1920-1993) e alla sua opera, soprattutto con riferimento alle particolari atmosfere, situazioni, personaggi dei suoi film, caratterizzati da un forte autobiografismo, dalla rievocazione della vita di provincia con toni grotteschi e caricaturali, da visioni oniriche di grande suggestione (...)”. Volendo invece trovare una definizione formale del termine “cronenberghiano”, l'unica scelta possibile è quella di orientarsi sul meno celeberrimo (e molto più pop) Wiktionary online, dove troviamo scritto: “Di o pertinente a David Paul Cronenberg (1943-), regista e scrittore canadese e uno dei principali artefici del genere Body Horror”. Ora, nonostante che la centralità del corpo e dei suoi insondabili misteri nell'opera di Cronenberg sia un dato puramente oggettivo, ricondurre la sua impronta autoriale principalmente alla presenza di mutazioni, contagi e affini ha generato, nel corso degli anni (ma potremmo anche dire da M. Butterly in avanti) un cortocircuito difficile da sanare. Ed è lo stesso filmmaker canadese ad analizzare lucidamente la situazione: “ (…) io credo che alcune persone, sia nella critica che fra il pubblico, abbiano la tendenza a fossilizzarsi sugli effetti speciali bizzarri, il gore e le trasformazioni fisiche; tutte cose che hanno caratterizzato molti dei miei film e che probabilmente metterò in altri, ma che, comunque, non sono per me fondamentali e, soprattutto, non ci sono in tutti i miei lavori: non c'erano trent'anni fa in La zona morta e non ci sono nemmeno in film più recenti a partire da Inseparabili o M. Butterfly”. In Cronenberg, infatti, l'uso del corpo e delle sue mutazioni/trasformazioni (così come lo stesso genere Horror ) è solo un vettore, per scavare “sotto la pelle” alla ricerca del suo vero obiettivo: l'identità. La vera domanda, in pratica, non è :“cos'è il corpo?” ma bensì: “Chi siamo noi?”. E se questa sovrastruttura visiva a base di fluidi, escrescenze ed effetti speciali è risultata tanto preponderante da oscurare, quasi, il vero obiettivo del regista canadese, la “colpa” è anche di ciò che Ottavio Di Brizzi definisce come “fisicalizzazione della metafora”, ovvero l'uso letterario degli effetti speciali e la rappresentazione di figure simboliche o direttamente allegoriche (The Brood è sicuramente l'esempio più calzante, seguito a ruota da Videodrome); un cinema, insomma, che si fa di (nuova) carne e sangue e che più diventa cerebrale più, paradossalmente, la sua rappresentazione diviene viscerale ed esplicita. “Non sono io ad essere ossessionato da queste tematiche”, prosegue Cronenberg nella sua analisi del fenomeno, “ma sono altre persone che proiettano le loro ossessioni su di me e, quindi, le stesse persone rimangono spaesate quando faccio un film senza quegli elementi”. Infatti, anche se nella prima parte della sua carriera è stata principalmente la “ribellione del corpo” a scatenare quella profonda meditazione sui nostri limiti umani e sulla definizione della nostra identità, la cronenberghiana ricerca dell'io ha esplorato con la stessa efficacia l'inconscio (Spider), gli istinti primari (A Dangerous Method), la memoria (La promessa dell'assassino, History of Violence) e la sessualità (Crash) di corpi sempre in caccia di una loro “unicità” in un mondo in cui gli universi partoriti dall'immaginazione (leggi anche “gli specchi”) possono essere infiniti. Junghianamente parlando, d'altronde, è la relazione Io/Sé ad essere l'asse portante della psiche umana; dove il Sé incorpora coscienza ed inconscio (personale e collettivo), è la somma del potenziale di un individuo e la totalità della sua personalità. L'Io è invece il centro del campo di coscienza, non coincide con la totalità della sua psiche ma è solo il soggetto della sua coscienza. Per Jung è il Sé che, ad un certo punto della vita, diventa l'orizzonte per una nuova ricerca di senso e significato nella costruzione dell'Io. Questo percorso, in pratica, costituisce il processo di individuazione, il cui scopo è il raggiungimento della propria autenticità, di ciò che essenzialmente ognuno “é”. Nella totalità dell'opera cronenberghiana ciò accade attraverso un'alterazione, una mutazione (sia nel corpo che nella mente) grazie alla quale, nel bene o nel male, i personaggi evolvono o, per usare un termine in linea con Existenz, “passano di livello”. L'ultimo esempio di questa investigazione filosofica lo troviamo in Divorati, il primo romanzo di un regista che era partito con il sogno di diventare scrittore prima che la curiosità per la tecnologia non lo risucchiasse completamente nella Settima Arte. I protagonisti della storia sono i fotoreporter Nathan e Naomi, due anime in pena che ricercano la loro identità andando in giro per il mondo a “fotografare” realtà estreme e confrontandosi, così, con malattia, feticismo, follia, mutazioni (vere e presunte) e cannibalismo; tutto ciò mentre la realtà virtuale si interseca a quella reale (?) fino a divenire una dimensione allucinata ed indistinguibile nella quale tutti i personaggi si “perdono” (letteralmente). Ed è a causa di queste cristalline caratteristiche, forse più esplicite rispetto alla narrazione filmica proprio perché filtrate dal potere evocativo della parola scritta, che, senza timori, possiamo definire Divorati come un'opera puramente ed intrinsecamente cronenberghiana. Detto ciò, è sempre lo stesso David Cronenberg a ridimensionare l'aggettivazione del suo nome con una dichiarazione che pone fine a qualsiasi possibile speculazione: “Quando faccio un film che mi appassiona e mi interessa davvero, io non mi concentro su nient'altro e non penso, retroattivamente, agli altri miei film cercando di trovare una omogeneità; quel processo di analisi, di ricerca di collegamenti, spetta solo ai critici. Io faccio cinema e lo faccio nel presente, senza pensare a quello che ho fatto in passato o a quello che farò in futuro. In altre parole mi abbandono all'intuito e non alla razionalità”.
Paolo Zelati

BIBLIOGRAFIA

Le dichiarazioni di David Cronenberg sono tratte da “American Nightmares: conversazioni con i Maestri del New Horror americano”, Paolo Zelati, Ed. Profondo Rosso, 2014
“La bellezza interiore: il cinema di David Cronenberg”, a cura di Michele Canosa, Le Mani, 1995
“ Carpenter, Romero, Cronenberg: discorso sulla cosa”, Lorenzo Esposito, Editori Riuniti, 2004
“They Came from Within”, Caelum Vatnsdal, Arbeiter Ring Publishing, 2004

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