Paolo Zelati

Interviste

Alexandre Aja: da "Alta tensione" a "Le colline hanno gli occhi"

Intervista al regista francese Alexandre Aja in occasione dell'uscita di "Le colline hanno gli occhi" (pubblicata su "Horrormania" Luglio 2006)

Il tuo film è, secondo me, uno dei pochi tentativi riusciti di remake intelligenti ed aggiornati al contesto contemporaneo; quindi andiamo subito al punto parlando del tuo lavoro sul sottotesto politico di “Le colline hanno gli occhi”.

E’ stato un lavoro con una genesi interessante. Dopo aver visto Alta Tensione, Wes Craven ha convocato me e Greg Levasseur e ci ha chiesto se “per caso” conoscevamo Le colline hanno gli occhi dato che aveva intenzione di farne un remake, visto il grande successo ottenuto da quello di Non aprite quella porta (che a mio parere fa schifo). Però Wes lo avrebbe fatto solo se riuscivamo a trovare un’idea talmente forte da giustificare una versione di quella storia nel 2006. Così, alcuni giorni dopo, noi tornammo da lui con l’idea degli esperimenti nucleari, aspetto che mancava nel film del 1977, a Wes piacque molto e così cominciammo a scrivere la sceneggiatura. Noi siamo quelli della generazione cresciuta con davanti agli occhi i tremendi effetti di Chernobyl, una paura del nucleare diversa da quella degli anni Cinquanta: dover pagare le conseguenze dei nostri errori. Quindi, una volta trovata questa chiave di lettura, tutto il resto è venuto abbastanza di conseguenza: l’aspetto fisico dei freaks, la loro storia e il villaggio in cui è ambientata la fine. E nello stesso tempo, anche l’aspetto politico del film si palesava sempre di più mentre scrivevamo la sceneggiatura: ci siamo subito resi conto che la storia parlava soprattutto di come l’America avesse creato i loro mostri e poi ne avesse perso il controllo. Inoltre, nonostante la vicenda parlasse della tragedia nucleare del New Mexico, l’ambientazione riportava chiari echi di scenari di guerra altrettanto gravi ma molto più contemporanei. Io penso che l’aspetto politico del film sia riuscito proprio perché non è stato deciso a tavolino, ma è cresciuto quasi da solo insieme alla sceneggiatura; poi abbiamo sviluppato consapevolmente alcune metafore che puoi vedere nel film come l’uso della bandiera e dell’inno americano, il dualismo all’interno della famiglia tra il democratico e il repubblicano. Abbiamo combattuto per mantenere un sottotesto politico di questo tipo in un film che, comunque, mira soprattutto a divertire e spaventare il pubblico. Il nostro scopo dichiarato è sempre stato quello di recuperare lo spirito degli anni Settanta e di film come Cane di paglia, Un tranquillo Week-end di paura e Non aprite quella porta, tutti quanti film molto politici. Io credo anche che se avessimo fatto questo film prima dell’11 settembre non sarebbe stato lo stesso film proprio perché dopo quella data la situazione politica internazionale è diventata simile a quella degli anni Settanta quando Wes realizzò il film originale.

Come hai lavorato con gli attori rispetto all’attuazione di questo sottotesto politico?

Abbiamo avuto delle lunghe conversazioni con Ted Levine e Aron Stanford circa il dualismo Democratici / Repubblicani, soprattutto rispetto al finale: si può dire che il personaggio di Doug si trasforma in un repubblicano? Secondo me no, perché si tratta solo di un uomo che è costretto a dimenticare ogni traccia di civilizzazione per diventare come i suoi nemici e sopravvivere. Poi abbiamo discusso circa l’indubbia somiglianza tra il deserto del film e quello iraqueno, però credo che l’unica metafora chiara sia quella dell’America che ha creato i suoi mostri, e in questo senso si tratta di un’allegoria della società americana contemporanea. Oggi, negli USA, chiunque non perde occasione per sventolare la bandiera; c’è in atto una sorta di estremizzazione dei sentimenti, anche parlando di religione. Per un regista tutto ciò è molto interessante e può essere sviluppato metaforicamente in film come il mio.

Cosa hai chiesto di preciso ai tecnici della KNB per la realizzazione dei mostri?

Ho lavorato molto insieme a Greg Nicotero e gli ho portato una grossa documentazione circa gli effetti delle radiazione sui bambini giapponesi, sugli abitanti di Chernobyl e sulle mutazioni causate dall’Agente Arancione usato in Vietnam. Per me la cosa più importante era caratterizzare gli abitanti delle colline nel modo più realistico possibile, perché se non ci credi non ti fanno paura!

Questo, credo, sia uno degli aspetti che rendono il tuo film enormemente superiore all’originale: infatti la famiglia di cannibali vestita di pellicce non era spaventosa, ma grottesca e quasi comica…

Sono d’accordo, e infatti questo è stato il più importante confronto che ho avuto con Wes: lui avrebbe voluto riproporre l’idea della famiglia che si scontra con il suo “doppio”, io invece ho voluto rimanere più vicino ai Carter e osservarli mentre affrontano qualcosa di sconosciuto e veramente agghiacciante.

A livello scenografico mi è piaciuto molto il villaggio prefabbricato coi manichini dove vivono i mostri, come hai avuto l’idea?

E’ tutto vero! Negli anni Cinquanta l’Esercito americano ha costruito in mezzo al deserto una serie di piccole città, con all’interno dei manichini a grandezza naturale, mobili e vero cibo nei frigoriferi; tutto per testare gli effetti delle esplosioni. Per cui noi abbiamo immaginato che dopo lo sganciamento dell’ultima bomba, uno di questi villaggi sia sopravvissuto e, grazie al nostro budget, abbiamo potuto ricostruirlo esattamente come quelli degli anni Cinquanta. Anche per i titoli di testa abbiamo usato dei veri filmati dell’Esercito americano, montati con filmati medici di bambini mutati dalle radiazioni.

Cosa rispondi a chi ama “Alta Tensione”, ma non gli perdona il finale “schizofrenico”?

Rispondo che non avrebbe dovuto essere così!

Spiegati meglio…

Il film avrebbe dovuto concludersi nella stanza d’ospedale con Cecile che raccontava la storia del camionista assassino e di cosa era successo, poi una volta terminato il racconto, il commissario le faceva vedere il nastro della stazione di servizio e si scopriva che l’assassina era lei e tutto ciò che aveva raccontato era completamente inventato. In questo modo sarebbe stato un altro film.

E perché hai cambiato il finale?

Perché poche settimane prima di cominciare a girare, uno dei nostri pater si è ritirato e noi siamo andati a chiedere aiuto finanziario a Luc Besson (l’unico che in Francia produce pellicole di genere). A lui piacque molto la sceneggiatura e decise di metterci i soldi, però decise di cambiare il finale in questo modo. Per cui, tutti i problemi di logica legati ad esso derivano da un finale improvvisato all’ultimo momento.

Come è nato il progetto inizialmente e perché hai scelto di inserire “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e Poveri?

Io e Greg volevamo fare un omaggio a tutti quei libri e quei film che ci avevano influenzato e ci avevano spinto a diventare filmmaker. Giannetto De Rossi ci ha molto aiutato in questo nostro tributo al cinema dell’orrore che abbiamo amato! Per quanto riguarda la canzone, l’ho scelta perché era stata usata in un film francese chiamato L’effrontée, che nel 1985 ha ottenuto un grande successo al botteghino, soprattutto tra le ragazzine di 9 e 10 anni. E le due protagoniste di Alta Tensione avevano l’età giusta per essere le fan di quella canzone. Per questo l’ho usata.

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