Paolo Zelati

Saggi

camelot on my mind: il cinema rivoluzionario di George A. Romero

Saggio pubblicato sul catalogo del Lucca Film Festival 2016

Parlare di George Andrew Romero ad un pubblico di appassionati e conoscitori di cinema Fantastico è ormai come cercare di fornire nuove informazioni sul Papa durante un concilio di vescovi in Vaticano. Durante i (quasi) cinquant'anni trascorsi da quella notte del 1968, nella quale Night of the Living Dead venne proiettato nel circuito dei Drive Inn americani, sono stati usati fiumi di inchiostro per descrive, incensare ed analizzare il film che ha cambiato per sempre la storia del cinema horror ripulendola, in un sol colpo, dalle ingombranti seppur radicate ragnatele del Gotico. Il germe di tale rinnovamento era già presente nel cinema americano degli anni Sessanta in film quali Carnival of Souls (Herk Harvey, 1962), 2000 Maniacs (1964, H.G. Lewis) e Spider Baby (1967, Jack Hill) ma è con il groundbreaking film firmato da Romero e John Russo nel 1968 che il Genere muta davvero e, contemporaneamente, inizia la gloriosa avventura del New Horror americano. Night of the Living Dead è infatti il primo film che porta davvero l'orrore sul suolo americano, in piena luce (la sequenza iniziale del cimitero è passata alla Storia) e senza trovare un capro espiatorio esterno (malvagia nobiltà europea, mostri spaziali, invasori, infingardi traditori esteri...) sul quale scaricarne la colpa: il nemico non è più “out there” ma “within” The American Dream. Le famose “radiazioni spaziali” sono solo un'espediente da fumetto, reso peraltro meno efficace dai tagli effettuati da Romero quando, trovata finalmente una distribuzione, ha dovuto portare il film alla durata canonica di 90 minuti. Sul pavimento della sala di montaggio sono finiti, infatti, importanti (con il senno di poi) sequenze dedicate ai media, nelle quali ogni giornalista esponeva una sua particolare spiegazione/causa del fenomeno dei morti tornati in vita. Questo elemento, oltre ad anticipare una tematica (il ruolo dei media) che poi diverrà essenziale nei successivi capitoli della Dead Saga, aumentava il senso di caos e di confusione totale in cui la società americana era improvvisamente piombata. Il microcosmo delle campagne di Pittsburgh in cui si svolge la narrazione riflette metaforicamente la situazione reale degli Stati Uniti d'America in un periodo in cui guerre, conflitti razziali, proteste giovanili e la crisi della famiglia tradizionale stavano letteralmente trasformando la coscienza del Paese. Non tutti, però, accettavano di adattarsi al cambiamento (e non solo fra la classe dirigente), ma resistevano ad oltranza, ignorando la realtà e peggiorando irrimediabilmente le cose. Ed è proprio questa problematica che Romero e compagni mettono in scena attraverso Night of the Living Dead: “I morti viventi”, afferma Romero, “per quella che era la mia intenzione dell'epoca, rappresentavano la disillusione degli anni Sessanta ed il modo in cui la gente non ha accettato l'idea di andare incontro ad un così grande e significativo cambiamento. L'idea era quella di rappresentare una società in cui la gente continuava la propria vita come se niente fosse successo, fingendo di non accorgersi di quello che gli capitava intorno o, peggio, affrontando gli impulsi rivoluzionari nel modo sbagliato”. Il mondo del cinema americano aveva comunque già cominciato ad elaborare tale macro-tematica (un esempio per tutti: The Chase di Arthur Penn, 1966) ma è attraverso la forza espressiva, fantasiosa e creativa dell'exploitation che il “messaggio” arriva per la prima volta con tale perturbante impatto. Ed è solo questo l'unico, vero e conscio sottotesto politico di Night of the Living Dead; tutto il resto (tipo l'aver scelto un attore di colore come protagonista per poi farlo uccidere nel memorabile finale da una squadraccia di redneck) è solo frutto di fortunate coincidenze figlie del contesto nel quale il film è stato girato. Chi conosce George Romero lo può descrivere come un uomo curioso, intelligente, come un artista visionario o come un vero e proprio cacciatore di utopie; una personalità, quella del regista americano, poco incline ad uniformarsi alla massa e meno ancora a cedere ai compromessi e che, per questa ragione, lo farà sempre appartenere ad una minoranza (l'unica sua fase “hollywoodiana”, infatti, lo ha visto scrivere infinite sceneggiature che poi, però, nessuno gli ha concesso di dirigere...). Non c'è da stupirsi, quindi, se per la sceneggiatura del suo primo lungometraggio, Romero si è ispirato (anche se a sentir lui si è trattato di un vero e proprio furto!) a Io sono leggenda di Richard Matheson, libro rivoluzionario in ogni senso che ha influenzato lo sviluppo di tutto il Fantastico moderno. E da Matheson, Romero non ha “preso” solo l'idea di una rivoluzione che sovverte l'ordine del quotidiano in modo radicale, ma anche l'approccio verso “l'orrore” come genere. A George, infatti, non è mai interessato scioccare il proprio pubblico con immagini disgustose o con sequenze studiate ad arte per far saltare lo spettatore sulla sedia (i famosi Jump Scares); persino il celeberrimo uso del Gore (con l'aiuto di Tom Savini prima e della KNB poi) nella Dead Saga è sempre funzionale alla narrazione e mai fine a se stesso. Questa caratteristica è legata a doppio filo ad un'altra peculiarità della Dead Saga: per Romero i morti viventi non sono altro che un'immagine di noi stessi (“They are us” ama spesso ripetere il regista di Pittsburgh) e quindi sono le persone e non i mostri i veri protagonisti dei suoi film di zombi. Tale riflessione, forse scontata per i romeriani doc, è però molto importante perché differenzia nettamente i film firmati Romero da quasi tutti gli zombi movie realizzati negli ultimi quarant'anni. E' interessante notare come nonostante George Romero sia considerato (e anche a ragione) uno dei Re del cinema horror contemporaneo, solamente il primo film è stato concepito (per lo meno in parte) con lo scopo di “spaventare” in senso classico. Tutte le altre sue pellicole lavorano su un piano diverso: quello dell'allegoria, per fornirci vere e proprie istantanee della realtà contemporanea. E se è vero che il suo primo attacco al conformismo (Jack's Wife, 1972) non è andato proprio a segno a causa di enormi problemi produttivi, da Dawn of the Dead fino a Survival of the Dead, la cifra stilistica romeriana è rimasta sempre “fedele alla linea”. Storie nere, anche se non totalmente prive di speranza, in cui gruppi di esseri umani che dovrebbero aggregarsi e fare fronte comune davanti al pericolo, invece si odiano e continuano, ciecamente, a colpirsi alle spalle. Questo tema, poi sviluppato con le adeguate differenze, rappresenta il cuore pulsante della narrazione e dell'epica romeriana. Non ci si deve stupire se (salvo un paio di esempi, peraltro non dipendenti dalla volontà del regista) i film di Romero, proprio come quelli dell'amico e contemporaneo John Carpenter, non prevedono happy end, ovvero non ricostituiscono l'ordine iniziale delle cose. Se diamo per scontata l'interpretazione secondo la quale Romero, in questi cinquant'anni, ci ha raccontato attraverso i suoi film cosa succedeva (e continua a succedere) nella società, ciò che a prima vista può sembrare cinismo si trasforma automaticamente in “realismo”: basta accendere la televisione e seguire giornalmente le news per entrare “in sintonia con il Romero-pensiero”. E anche quando questa rielaborazione della realtà non passa attraverso gli zombi, la filmografia del cineasta americano ci ha regalato pellicole memorabili come Martin (1977), la versione romeriana del Mito di Dracula, in cui un ragazzo viene talmente influenzato dal contesto socio-famigliare che lo circonda da convincersi di essere un vampiro. La narrazione rimane fino alla fine volutamente in bilico fra una spiegazione razionale (psicosi) e una soprannaturale...anche se non si fa fatica a capire quale sia il punto di vista del regista. Nel contesto di un'ambientazione desolante (la Pittsburgh industriale in forte crisi economica), Romero ci mostra in modo piuttosto diretto i danni provocati da una castrante educazione cattolica e, allo stesso tempo, mette in luce uno dei temi cardine del New Horror americano: anche la tua stessa famiglia può rivelarsi come una fonte d'orrore. Ma il momento più alto di tutta la filmografia romeriana, perlomeno in termini di lirismo, è senza dubbio Knightriders (1981), film magnifico ma anche troppo profondo, coraggioso e personale per essere compreso da una critica vetusta che solo qualche anno prima gli aveva stroncato anche Night of the Living Dead per poi correre ai ripari dopo la “riscoperta” da parte dei Cahiers du Cinéma. Attraverso le avventure dei suoi Knightriders Romero dipinge la decadenza morale di un Paese che si apprestava ad entrare nel “periodo dell'abbondanza” ma anche “dell'apparenza” e che otto anni di Reaganomics avrebbero messo in ginocchio (da questo punto di vista They Live di John Carpenter, 1989, è praticamente il sequel di Knightriders). Contemporaneamente il regista americano “confessa” tutta la sua “innocenza” da regista idealista in mezzo al materialismo degli Studios al quale non si vuole, a nessun costo, uniformare. Ed è qui che Knightriders si trasforma in puro metacinema in quanto Romero, oltre a descrivere metaforicamente (ma non poi più di tanto se si pensa al personaggio interpretato da Tom Savini) la sua lotta personale e quotidiana contro l'invadenza dei produttori ed il cinema usa e getta, utilizza per Knightriders tutta “la sua gente”, davanti e dietro la macchina da presa. Ovviamente il pubblico del 1981 non recepisce (o non vuole recepire) nulla di tutto questo ed il film si riduce ad un clamoroso flop al botteghino. Nel corso degli anni, però, il film è stato rivalutato e sono pochi gli appartenenti alla “minoranza silenziosa” dei fan di George Romero che non lo giudichino uno dei suoi film più importanti. George, che all'epoca venne molto ferito dall'accoglienza subita da Knightriders, ha però alzato la testa ed è andato avanti per la sua strada, seguito da quel plotone di “cavalieri” che, film dopo film, sono sempre più convinti che “Camelot is a State of Mind”.

Paolo Zelati

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